I
MISTERI DI GIORGIO GEMISTO PLETONE
(testo della conferenza del 24.02.2000 tenutasi al Club Malatestiano di Rimini e promossa dal Circolo Culturale “Giovanni Venerucci” , in occasione della presentazione del volume “Trattato delle virtù”, edito a Rimini per i tipi di Raffaelli Editore)
A mezzo millennio e mezzo secolo di distanza dalla morte di Giorgio Gemisto Pletone, il filosofo che già nel 1882 in un testo francese, – per altro il primo studio complessivo sulle arti e le lettere nella corte malatestiana -, veniva definito “una delle fiaccole dell’umanità”, la sua figura, pur avendo avuto un ruolo determinantissimo nella nascita del Rinascimento italiano, rimane ancora velata.
La recente pubblicazione, per la prima volta, della traduzione in italiano del suo “Trattato delle virtù” è una vox clamantis in deserto, un seme lanciato in un terreno culturale , che, salvo scarsi e perciò preziosi contributi, pare essere irrimediabilmente inaridito. Eppure la grandiosa idea di Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, giunto ormai agli estremi, l’ultima operazione del Tempio che sapeva destinato a restare incompiuto, è proprio quella di trasportare le ossa del vero iniziatore del Rinascimento, ed ospitarle in quel monumento che, non a torto, si è detto, ha la possibilità e quasi il diritto di porsi ad emblema stesso del Rinascimento.
Dunque, quella di Pletone è una figura che continua ancora a restare avvolta nel mistero. Di un uomo di cui, stranamente, vediamo il carisma su tantissimi uomini del Rinascimento e l’influenza in tante e così grandi opere altrui e ne conosciamo pochi o quasi nulli tratti. E’ presente nelle armoniose misure musicali basate sulla sezione aurea pitagorica dell’architetto Leon Battista Alberti, è l’iniziatore ed ispiratore non solo dell’Accademia fiorentina, di quelle Romane, della Napoletana ed anche della prima italiana, ma meno nota, riminese, con tutto quello che ne conseguì in termini di rivoluzione del pensiero, con lui rinasce lo studio dei testi di Platone, Plotino, Proclo, Porfirio, Giamblico e Psello (che per primo collazionò i testi oggi noti come Corpus Hermeticum), è primo attore nella reviviscenza della cultura astrologica che permeò tante corti italiane, accompagna persino le caravelle di Colombo.
Eppure la sua figura continua a restare, soprattutto nella città che ne ospita le spoglie, più tenue di un’ombra. E, forse, la sua vita quasi centenaria ed il suo destino odierno sono l’esatta metafora del suo ideale del saggio: teso com’era agli studi, alla conoscenza, alle riflessioni in campo sociale, ai riti, a non rivelare ad estranei più di quanto fosse necessario, per non esasperarli, loro già esasperati per la sua conoscenza o indignati per i princìpi che inevitabilmente propugnava, teso ancora a rendere più abitabile il mondo e più umane e quindi più divine le cose, intento alle opere e perciò vivo nelle opere che ha ispirato ai suoi discepoli in un lavoro comune che non è ancora terminato. Credo che l’esito del XV secolo, le navi che superano le colonne d’Ercole ed affrontano il mare aperto siano l’esatto specchio della nuova scienza che Gemisto porta in Occidente, superare la gabbia sclerotizzata della Scolastica aristotelica e cercare di raggiungere il sogno di città e mondi ideali.
Dunque, tornare a Pletone non è uno sforzo inutile, non è un esercizio vano da lasciare solo agli studiosi di storia del Rinascimento. Al contrario, riuscire a comprendere la sua personalità, seguire le tracce del suo incredibile cammino dall’Oriente all’Occidente, penetrare nel suo pensiero seducente e misterioso, rappresenterebbe una grande occasione per recuperare il senso più profondo della grande stagione culturale che apre l’età moderna e che fonda il nostro mondo: il Rinascimento.
Dicevamo che l’ultima opera effettiva di Sigismondo nei confronti del Tempio Malatestiano di Rimini è quella di collocare le ceneri di Pletone nella terza arca della fiancata del Tempio, onorandolo come il più devoto dei suoi discepoli, facendo iscrivere: “Philosophor[um] sua temp[estate] principis” , principe dei filosofi del suo tempo. Si notò come strano l’appellativo del suo tempo e non del nostro tempo, inducendo in passato a qualche equivoco sull’identità del sepolto, senza pensare che le parole “sua temp[estate]” furono volute da Sigismondo nella considerazione che sarebbero state lette per secoli e secoli.
In una ricognizione delle arche e dei sepolcri del Tempio, effettuata nell’agosto del 1756, vi fu rinvenuto come risulta dai verbali dell’epoca “un involto di ossa tutte confusamente legate in un tappeto di lana rossa, il quale urtato si aprì e sciolse, ed allora si videro le ossa del cadavere dove si notò il teschio di una non volgare grandezza, di tutti li suoi denti adorno, unito alla mandibola inferiore. Si trovò inoltre in questo involto certo taffetà di colore fosco che fu creduto la cappa del defunto”.
Di quel monumento, il 27 aprile 1462 il pontefice Pio II dichiarava, in un solenne concistoro, “Non sembra un Tempiodi Cristo, bensì di fedeli adoratori del demonio“. Pio II, faceva rovesciare addosso a Sigismondo una valanga di accuse infamanti: vari omicidi (incluso un fratricidio e due uxoricidi, il primo mediante avvelenamento ed il secondo con strangolamento); stragi; fabbricazione e spaccio di moneta falsa; stupro di un’ebrea di Pesaro, di una monaca di Volterra, di una nobildonna tedesca in pellegrinaggio; incesto e sodomia ai danni del figlioletto Roberto, infrazione del digiuno quaresimale; ma soprattutto al Signore di Rimini era imputata la costruzione di un tempio pagano per officiarvi riti sacrilegi. Suo malgrado, Pio II doveva ammettere: “Sigismondo conosceva le storie ed era molto innanzi nella filosofia, e sembrava nato a tutto ciò che intraprendeva”.
Segue alla scomunica di Sigismondo Malatesta, la bruciatura in effigie, con dei manichini somigliantissimi a grandezza naturale e in tre luoghi, sul Campidoglio, sulla scalone di San Pietro e a Campo dei Fiori, anticipazione del rogo effettivo di un altro grande iniziato ermetista.
Si osserverà come questa sia una storia punteggiata da roghi, al principio e alla fine, di effigi di Sigismondo, di libri di Pletone, di persone e in carne e ossa come Bruno.
I lavori del Tempio, iniziati nel 1446/7, già nel 1461 sono interrotti: in quell’anno il Tempio aveva un tetto da cui entravano pioggia, neve e vento, col rischio di una generale, tragica rovina; nel 1462 la scomunica, e nel 1463 Sigismondo, che vede allearsi contro di lui tutti gli Stati italiani, è costretto il 4 ottobre del medesimo anno a fare ammenda in Vaticano, dove, sconfitto, deve rinunciare a tutti i suoi territori ad eccezione della città di Rimini e deve anche protestare contro le idee d’eresia che gli si attribuivano dinnanzi al collegio dei cardinali.
Si può dire che non restasse più oramai al grande condottiero che la sua spada; doveva metterla al servizio degli Stati per quali il suo nome di soldato aveva ancora del prestigio. Si rivolse dunque ai Veneziani, che gli affidarono un esercito destinato a togliere la Morea, l’odierno Peloponneso, ai Turchi.
Pio II, che tanto aveva contribuito alla sua perdita, vedeva con soddisfazione un soldato come Sigismondo allontanarsi dai suoi Stati e lanciarsi in una pericolosa avventura : da un altro lato, quella spedizione in Morea era pur tuttavia l’anticipazione di quella crociata, cui aveva invitato i regnanti della cristianità nel congresso di Mantova del 1459, e, conservando per intero il suo riposto pensiero contro colui che aveva appena ridotto all’impotenza e al quale portava un odio inestinguibile per un tradimento commesso da Sigismondo anni addietro verso Siena, la sua città, il Pontefice non poteva che benedire un’impresa contro gli infedeli ed aiutare i Veneziani nella loro impresa. Nell’agosto 1464 Pio II spirava ad Ancona, dove era giunto il mese prima e da dove i crociati, con la sua personale partecipazione- per la prima volta un Papa alle Crociate ! – , avrebbero dovuto imbarcarsi. Immediatamente si disarmò la squadra. Proprio in quei giorni il “pagano” Sigismondo in Morea attaccava la fortezza di Mistrà per riportarne unico trofeo le ceneri di Giorgio Gemisto Pletone, morto da dodici anni, perché riposassero nel “pagano” Tempio di Rimini, lo riportava nel mondo che era stato scenario del suo arrischiato progetto: pretendeva di esporlo affinché l’Europa non dimenticasse il pagano e non dimenticasse se stessa e gli antichi dei.
Perché questo gesto da parte di Sigismondo? Che significato attribuirgli? E’ lecito pensare che Sigismondo ridotto ai minimi termini, col solo territorio di Rimini, affidato alla reggenza di Isotta sotto la protezione dei Veneziani, costretto ad abiurare pubblicamente le idee eretiche attribuitegli, per quella sua duplicità, che era uno degli aspetti del suo carattere, abbia deciso di compiere un atto di omaggio verso quelle che erano le sue reali idee. La campagna in Morea dura due anni e solo nell’aprile del 1466 Sigismondo torna a Rimini, portandosi dietro anche i germi di una febbre malarica, che l’aveva colpito duramente l’anno prima, tanto che si erano diffuse voci sulla sua morte, e che probabilmente lo porterà davvero alla morte il 7 ottobre 1468, non prima, comunque di altri episodi interessanti delle sue tensioni con la Santa Sede.
Ma torniamo a Gemisto. Giorgio Gemisto Pletone era giunto in Italia, alla veneranda età di 83 anni ma forse vi era già stato in gioventù a quindici anni, nel 1438 al seguito dell’Imperatore di Bisanzio Giovanni VIII Paleologo in occasione del Concilio di Ferrara e di Firenze. Aveva insegnato a Ferrara, a Bologna, a Rimini e a Firenze i misteri platonici accendendo ed ispirando – come ci riferisce Marsilio Ficino nel 1492 – con le sue fervide parole a concepire Accademie ove se ne realizzasse l’opportunità, riesumando – come ci informano schiettamente ancora lo stesso Ficino ed il suo successore Pico della Mirandola – quell’Accademia ove i primi seguaci di Platone ed il Maestro stesso praticavano “l’arte“.
Nel XV secolo l’impero bizantino si trovava sotto la minaccia turca e fu quindi costretto a cercare aiuto in Occidente, anche all’oneroso costo di piegarsi a qualche compromesso con Roma. Nel 1438 l’imperatore bizantino dunque, accompagnato dal patriarca di Costantinopoli, arrivò perciò in Italia per un concilio che aveva lo scopo di vagliare su quali basi si potesse risolvere lo scisma e riunire la cristianità. Inizialmente il concilio ebbe sede a Ferrara, ma lo scoppio improvviso di un’epidemia di peste costrinse i convenuti a trasferirsi a Firenze, dominio di Cosimo de’ Medici, banchiere del papa.
Il concilio iniziò i suoi lavori l’8 ottobre 1438 e si concluse con la partenza dell’imperatore bizantino il 26 agosto 1439. I risultati furono scarsi e si limitarono alla dichiarazione formale di vaghi accordi fra le due chiese. Ma se il concilio di Firenze fece ben poco per l’unità dei cristiani, ebbe enormi conseguenze d’altro genere. Per sostenere la causa della Chiesa ortodossa, l’imperatore si era fatto accompagnare da circa 700 eruditi ed ecclesiastici, i quali, prevedendo di dover fare numerose citazioni da testi importanti, avevano portato con sé un gran numero di manoscritti originali in lingua greca. Non si trattava solo di testi biblici o cristiani e alcuni erano per giunta ancora sconosciuti in Occidente. Fra questi i più interessanti erano probabilmente le opere di Platone, del quale gli eruditi occidentali conoscevano principalmente il Timeo. Uno degli eruditi più eminenti al seguito dell’imperatore bizantino, forse il massimo conoscitore dell’antichità, era appunto Giorgio Gemisto il quale, durante il concilio, adottò lo pseudonimo di “Pletone”.
Era nato a Costantinopoli verso il 1355, da nobile famiglia. Costretto in giovane età, per motivi ignoti, a lasciare la città natia, chiese asilo ad Adrianopoli, provvisoria capitale ottomana. Dopo la morte violenta del suo iniziatore, un ebreo di nome Elisseo messo al rogo, si spostò nel Peloponneso, a Mistrà (l’antica Sparta), terza città dell’impero, a quel tempo capoluogo di un principato greco, il Despotato di Morea, dove regnava il ramo cadetto della famiglia imperiale. Qui si stabilisce definitivamente, ricoprendo anche cariche pubbliche In particolare fu consulente e propose riforme sociali e governative per gli imperatori Manuele II Paleologo (che regnò dal 1391 al 1425) e Giovanni Paleologo VIII ( che regno dal 1425 al ‘48), era inoltre amico intimo del Despota di Morea Costantino Dragases Paleologo, che divenne nel 1448 l’ultimo imperatore di Costantinopoli; ha attaccato il latifondo ecclesiastico proponendo di dare le terre ai coltivatori, ha propugnato una forma di organizzazione platonica della società, una Repubblica ideale governata dai re filosofi, un diritto penale dove l’idea di pena si dissolveva a favore del servizio sociale, un ordinamento economico senza moneta, un esercito nazionale, anche l’idea dell’Impero retto da una flotta faceva parte del sistema, aveva sognato dunque, come Platone nella Repubblica, un sistema economico e politico, sociale e lavorativo, militare e religioso che avrebbe dovuto fare degli elleni un popolo prospero e armonioso.
Ma soprattutto a Mistrà fonda e guida una Scuola filosofica tradizionalista, un’accademia esoterica. In essa le iniziazioni erano celebrate con entusiasmo in forme cerimoniali e ordine gerarchico tra i partecipanti, complete di calendario, liturgia, inni musicali dedicati al sole e agli astri.
In uno dei frammenti salvati dalla distruzione delle Leggi, e dalla persecuzione che subì il suo ultimo libro, si leggono, fra l’altro, alcune preghiere molto significative: ” Apollo re, tu che regoli e governi tutte le cose nella loro identità, tu che unifichi tutti gli esseri, tu che armonizzi questo vasto universo così vario e molteplice …, o Sole, signore del nostro cielo, sii a noi propizio; e tu pure, sii a noi propizia, o Luna, venerabile dea; e tu, portatrice di luce (Venere), e tu, Stilbone (Mercurio), entrambi compagni fedeli del Sole splendente, e voi, Fainon, Faeton, Pyrois (Saturno, Giove, Marte), che tutti obbedite al Sole vostro re, che l’assistete come conviene nel governo delle cose umane, noi vi celebriamo come nostri splendidi protettori, con gli altri astri che una provvidenza divina ha lanciato nello spazio “.
Non traggano in inganno i molti nomi degli dei. Per Pletone il vero Dio è uno solo, il dio supremo, la cui legge è assoluta ed immutabile, dice: ” Tutto è soggetto a una legge …. Tutti gli eventi sono stabiliti dall’eternità, disposti nel migliore ordine possibile sotto l’autorità di Zeus, signore unico e supremo del tutto…“
Erano ancora feste rituali che intendevano suscitare una comunione spirituale con gli antichi, anche partendo dalla devota premessa, non del tutto irragionevole, che se le Verità del cristianesimo erano fondamentali, esse non potevano essere state del tutto irraggiungibili per i saggi dell’antichità. La reviviscenza dei classici era quindi strettamente connessa a speranze utopistiche in un credo universale che avrebbe trasceso le differenze di setta, speranze che si irrobustivano con dottrine incentrate sulla tolleranza e sul pluralismo delle idee in tutti i campi (in primo luogo in quello religioso).
L’espressione “Fratelli in Platone”, usata da Gemisto, è significativa dell’atmosfera vibrazionale che si doveva avvertire nella sua cerchia.
A parte il nome Pletone, scelto come pseudonimo, e che in greco significa “pieno” esattamente come Gemisto, per la sua assonanza con Platone, il nostro Giorgio Gemisto era dunque un filosofo “pagano”. Professava non tanto, come affrettatamente si dice in taluni manuali di filosofia, il sincretismo, quanto la Tradizione, cioè l’utilizzo di forme anche diverse nella convinzione che la Verità fosse una e più pura quanto più antica. Erede del pitagorismo, di Platone, seguiva anche in particolare quello che oggi noi definiamo il neoplatonismo, diffusosi ad Alessandria all’alba dell’era cristiana, e avversava il cristianesimo, cattolico e ortodosso, quando si presentava con l’arcigno volto dell’incontestabile dogmatismo aristotelico. In primo luogo ruppe il rigido sistema scolastico, che era divenuto una specie di camicia di forza intellettuale. Fece rivivere lo studio di Platone, disconoscendo dunque Aristotele, icona filosofica per tanti teologi cristiani, senza disdegnarne per questo la sua rigorosa analisi e sognava di ridare vitalità e dinamismo alla tradizione “gentile”, cioè pagana, in particolare quella pitagorica-platonica rifacentesi all’antica Accademia ateniese e ai tentativi di sua restaurazione da parte del più lucido e tollerante imperatore romano, Giuliano, appunto detto l’Apostata. Dovremmo inoltre usare per lui laparola”Archaiothréskos” (fedele all’antica religione) o ancora, anche “Ethnikos” (Gentile o devotamente fedele agli Dei, alla tradizioni e all’Ethos del suo ethnos, il suo popolo, perché Gemisto era anche un ardente patriota).
La legge bizantina prevedeva la pena di morte per quei cristiani che fossero tornati al pensiero o alla pratica pagana. Ciò è illustrato dal caso di Giovenale. Nel 1450, un governatore locale del Peloponneso dal nome di Manuel Raoul Oises arrestò per eresia un tale Giovenale. Ritenuto colpevole fu condannato. La pena fu questa: dopo avergli spezzato gambe e braccia, ancora vivo, fu gettato poi in mare. Curiosamente, sappiamo della vicenda perché ne fu fatto un resoconto dal più acerrimo nemico di Gemisto, Giorgio Scholarios, allora Giudice Supremo a Costantinopoli. che approvò Oises nel trattamento del caso.
Di conseguenza, Pletone fu obbligato a tenere per sé le proprie convinzioni e a confidarle solo a un gruppo limitato di iniziati.
Pletone sosteneva il primato dell’insegnamento orale, ricordando che sia Pitagora sia Platone preferivano la parola detta a quella scritta. Il concilio di Ferrara e di Firenze rappresentò per lui una tribuna eccezionale e la sua permanenza nelle città era destinata a provocare qualcosa di paragonabile a una reazione chimica, che avrebbe trasformato radicalmente, grazie a una reciproca influenza, sia l’uomo sia l’Italia e negli anni a venire l’Europa.
A Ferrara, esisteva già un Accademia, guidata da Guarino da Verona, che inizialmente aveva studiato con Crisolora e che aveva approfondito i suoi studi già in Grecia fra il 1403 e il 1408, presso lo stesso Pletone.
Negli anni precedenti il concilio, Firenze era diventata un centro di studi fra i più diversi. La cultura secolare aveva trovato un ambiente in cui svilupparsi, libera da coercizioni ecclesiastiche e affrancata dai sensi di colpa istillati dalla dottrina della Chiesa. Firenze era diventata la culla, del pensiero e della tradizione umanistica.
Parallelamente alla fioritura dell’umanesimo, si sviluppò una reazione contro Aristotele. I semi erano stati piantati un secolo prima, quando Petrarca aveva studiato la lingua greca e magnificato Platone. Benché poco si conoscesse della sua opera, almeno da parte del pubblico secolare, Platone fu subito accolto con entusiasmo dai pupilli e dai discepoli di Petrarca.
All’epoca del concilio di Firenze, la filosofia platonica, nonostante i pochi testi disponibili, era ormai radicata in città come lo era l’umanesimo.
Pletone, tra l’altro, giunge in Italia, già preceduto da una larga fama. Un suo allievo come il già citato Manuele Crisolora, anche lui consulente dell’Imperatore di Costantinopoli era già stato inviato in Italia alcuni decenni prima, sempre nel tentativo di riunificazione delle due chiese contro la minaccia turca che era sfociato nel concilio di Costanza e che aveva portato anch’esso a scarsi risultati.
Si può immaginare con quale soddisfazione Pletone, costretto fino ad allora a tenere segreti i suoi interessi, si immerse in questo ambiente rigenerante, privo di censure e restrizioni. Si beò della sua nuova libertà intellettuale e non essendo obbligato a partecipare a tutte le sessioni del concilio poté frequentare a suo piacimento gli umanisti italiani. Infatti durante il Concilio, Gemisto aveva molto tempo libero perché molte delle discussioni conciliari concernevano minuzie teologiche che non richiedevano la presenza di un saggio secolare.
L’attività di Gemisto, ciò nonostante, gli procura immediatamente degli avversari. Primo fra tutti Giorgio Gennadio Scholarios, un altro saggio, allora secolare, del seguito bizantino, un ortodosso aristotelico.
Il testo di una lettera, inviata da Scholarios a Teodora, principessa del Peloponneso, mostra una notevole somiglianza con le accuse mosse a Sigismondo e con quelle che successivamente saranno imputate a Marsilio Ficino, a Pico della Mirandola e a Giordano Bruno.
Scrive Scholarios: “Costui…fu così preso dalle opinioni elleniche, che si curò ben poco di comprendere il cristianesimo dei padri al di là di quelle esteriorità note a tutti. E non fece come tutti i cristiani che studiano i libri ellenici per la lingua; lesse e imparò prima i poeti e poi i filosofi per seguirli. E il motivo fu questo, come apprendemmo con precisione da molti che durante la gioventù lo conoscevano bene. Avendo queste inclinazioni, è naturale che per l’abbandono della grazia divina i demoni a cui si era dato lo rendessero continuamente propenso all’errore, cosa che del resto capitò a Giuliano e a molti altri apostati. Ma giunse poi al vertice dell’apostasia attraverso un ebreo, al quale si era rivolto per le sue conoscenze delle opere di Aristotele. Era un seguace di Averroè e degli altri commentatori persiani e arabi dei libri aristotelici che i giudei avevano tradotto nella loro lingua…Si chiamava Elisseo e fu lui che lo rese quello che è.”
Al termine del suo soggiorno in Italia, per alcuni nel 1439 per altri nel 1441, cioè due anni dopo il termine del Concilio, due anni oscuri e che qualcuno ipotizza abbia trascorso a Rimini ospite di Sigismondo, Pletone aveva abbandonato ogni finzione nei riguardi della fede cristiana e, almeno in una cerchia di sicuri discepoli, aveva espresso le sue reali convinzioni. Ripudiata la dottrina cristiana, Pletone abbraccia esplicitamente le dottrine che si rifacevano alle antiche scuole misteriche. Su di esse ci informa Giorgio Trapezunzio di Trebisonda, contraltare nella delegazione cattolica di Gennadio Scholarios, che, piccato, ci informa: ” L’ho udito io stesso a Firenze – era lì per il concilio con i greci – mentre asseriva che tutto il mondo tra pochi anni avrebbe accolto una sola medesima religione con un solo animo, una sola mente e una sola predicazione e avendogli chiesto “cristiana o maomettana?”, rispose “nessuna delle due, ma non differente da quella dei pagani”. Sdegnato per queste parole l’ho sempre odiato e l’ho considerato una serpe velenosa, né l’ho più potuto vedere e ascoltare…L’ho visto io in persona, eh se l’ho visto levare preghiere e inni al sole, nelle quali, come creatore del tutto, lo esalta e lo adora con tanta eleganza di termini, dolcezza di composizione, sonorità di ritmo…d’altra parte dava al sole onori divini con parole talmente caute che anche i più dotti non se ne sarebbero potuti accorgere se non dopo attente e frequenti osservazioni.“
Pletone profetizzò che, entro pochi anni, tali dottrine si sarebbero diffuse in tutto il mondo, avrebbero soppiantato tutte le altre fedi e promosso l’unità del genere umano. Dichiarò, di conseguenza, che ” Maometto e Cristo saranno dimenticati e la verità vera splenderà su tutte le terre del mondo“.La forza dirompente di questa affermazione è impressionante, in quanto Pletone non si limita a dire che il cristianesimo e l’Islam rappresentano due varianti di una verità assoluta; al contrario, egli afferma che sono falsificazioni della verità, e che la loro distruzione è condizione necessaria perché la verità rinasca. Non conosciamo i termini precisi con cui Pletone avrebbe espresso tali speranze: sappiamo solo che egli fondava il suo sistema sulla Tradizione, parlava di “credenze comuni” ( κοινά δόγματα), di cui saggiava la forza usando come criterio la loro età. Con l’ausilio di un gioco di parole permesso dal greco e tale che si conveniva perfettamente alla sua maniera alchemico-ermetica, Pletone collegava i “fondamenti del pensiero “ (λογικαί αρχαί) allo “studio delle antichità” (αρχαιολογία): come se ciò che è ‘primo’ per la logica e più saggio per la morale debba anche essere il più antico nel tempo . Dirà ancora Pletone: ” La filosofia si contrae in poche parole e tratta poche cose. Tratta i princìpi dell’essere e chi li abbia afferrati alla perfezione sarà capace di giudicare quanto possa venire a conoscenza dell’uomo “.
Oltre che su Platone tiene lezioni sugli Oracoli Caldaici, presentandoli come espressione della dottrina di Zoroastro (Zarathustra), “priscus theologus“, considerato la fonte principale di una sapienza solare antichissima che si manifesta per gradi, e della quale Pitagora e Platone risultano essere tra massimi rappresentanti. In aggiunta, egli ricollega a tale filone tradizionale anche Minosse, Licurgo, Numa, i sacerdoti di Dodona, i 7 Sapienti, Parmenide, Timeo, Plutarco, Porfirio, Giamblico, i Magi e perfino i Brahmani.
“Tutti questi, essendo in accordo intorno alla maggior parte delle questioni fondamentali, sembrano aver dettato le loro concezioni, come le migliori, agli uomini più sensati … Noi dunque li seguiremo senza cercare novità nostre o altrui … i sapienti esprimono sempre opinioni in armonia con le convinzioni più antiche…”.
Scrive ancora Pletone nelle Leggi: ” Queste dottrine sono state professate soprattutto dai filosofi della scuola di Pitagora e di Platone… Questi i principi di Zoroastro e dei suoi seguaci. Li attribuiamo a lui, il più antico di cui ci resti memoria, benché non pensiamo che derivino da lui. Infatti sono antichi come il cielo; sono principi di verità da sempre presenti agli uomini…conoscenze comuni messe dagli dei nelle nostre anime. E se talvolta sono riconosciuti dai più, e tal altra dai meno, è pur sempre secondo queste nozioni comuni messe dagli dei nelle anime nostre che agiscono gli uomini che si conducono bene e rettamente…Dai legislatori e dai filosofi più che da ogni altro uomo è possibile apprendere qualcosa di saggio a proposito di questi argomenti. I legislatori infatti proponendosi come scopo dell’opera loro il bene comune è probabile che non se ne allontanino sempre. I filosofi ritenendo che la verità è il principio della felicità, e ricercandola più d’ogni bene, è probabile che la incontrino più facilmente di altri.”
E dopo avere enumerato come maestri comuni Solone e Biante, Pitagora e Platone, Plutarco, Plotino e Porfirio, Gemisto conclude: ” Tutti essendo concordi fra loro sulla maggior parte delle questioni e sulle più importanti, sembrano avere espresso le dottrine più valide per gli uomini saggi a venire. Noi pure seguendoli non innoveremo nulla in così gravi questioni, né accoglieremo alcuna delle novità dei sofisti. Fra i sapienti e i sofisti c’è infatti questa non piccola differenza, che le opinioni dei saggi appaiono sempre in accordo con le più antiche credenze, in modo che la verità anche da questo punto di vista è superiore alle affermazioni più moderne di quelli che pensano erroneamente; i sofisti invece tendono solo a innovare, e sopratutto di questo menano vanto. Questo infatti dà loro quella gloria vana, a causa della quale si adoperano in tutto. Noi, invece, accoglieremo le dottrine e i detti degli uomini che sempre, dall’antichità, hanno saggiamente pensato; e, a un tempo, con il ragionamento, che è il più potente e il più divino dei nostri mezzi di conoscenza, cercheremo, attraverso un’attenta comparazione, di raggiungere su ogni questione, per quanto è possibile, ciò che è il meglio.
Poeti e sofisti, infatti, in questo sono dannosi, nel non dare alcuna ragione valida di ciò che dicono, fingendo gli uni e gli altri di dovere a un ispirazione degli dei le cose che affermano.
Al Concilio di Firenze egli parteggiò per l’intransigente Marco di Efeso, il cui motto era il versetto XXII, 28 dei Proverbi: “Non rimuovere il termine antico, che i tuoi padri hanno posto“. Se la Verità, purissima agli inizi, era stata poi contaminata da innovatori stupidi o ambiziosi, allora un accordo religioso poteva essere raggiunto solo ripristinando con cura gli antichi credi.
Durante il soggiorno italiano, Pletone tenne anche una serie di conferenze per un pubblico di studiosi umanisti, durante le quali faceva confronti fra Platone e Aristotele, esprimendo critiche pesanti verso il secondo e magnificando il primo. Pletone afferma nel De differentiis : “I più antichi, così Greci come Romani, stimavano molto di più Platone che Aristotele. La maggior parte dei moderni, invece, specialmente gli occidentali, ritenendo di essere più dotti degli antichi, ammirano Aristotele più di Platone, convinti da un arabo, Averroè, il quale afferma che Aristotele è il punto più alto e perfetto raggiunto dalla natura rispetto alla filosofia. Ora, anche se si trattasse di un uomo in tutto il resto degno dì fede, non ne potrei accogliete facilmente il parere; ma rispetto all’anima fu così poco serio da sostenere che essa è mortale.“
Alle sue affermazioni veniva attribuito tanto più credito in quanto Pletone era in grado di citare i testi originali greci senza le distorsioni che caratterizzavano le traduzioni latine e arabe.
Sulla superiorità di Platone continuò la sua polemica con la sua Replica a Scholarios. Entrambe le opere hanno poi l’originalità di essere le prime che poggino le proprie basi sullo stesso terreno di Aristotele ovvero con un laconico e stringente razionalismo.
Tali erano la sua erudizione, il suo entusiasmo e il suo carisma che il pubblico voleva saperne sempre di più e conoscere meglio le fonti da cui egli traeva le proprie convinzioni. Fra quelli che più degli altri provavano tale desiderio c’era colui che avrebbe dovuto svolgere al contrario una funzione di controllo: Cosimo de’ Medici.
Cosimo “udì spesso un filosofo greco di nome Gemisto parlare, come un altro Platone, dei misteri platonici […]. Cosimo fu […] così ispirato, così profondamente conquistato che, da quel momento, concepì nella sua mente una Accademia da creare alla prima occasione favorevole “.
Così scriveva, qualche anno più tardi, Marsilio Ficino, un giovane che sarebbe diventato uno dei protetti di Cosimo e avrebbe svolto un ruolo determinante negli avvenimenti successivi. Aver assistito alle conferenze di Pletone era stato davvero fonte di ispirazione per Cosimo, un uomo di mondo che però aspirava a una verità più alta e spirituale, una verità che, questa era la sua intima convinzione, la Chiesa non era più in grado di rappresentare e che era invece viva in Platone. Entrato in possesso dell’edizione completa delle opere di Platone (acquistate, sembra, direttamente da Pletone), e quindi del Corpus Hermeticum si dedicò all’ambizioso progetto di fare della città di Firenze un centro di studi platonici ed ermetici. Al centro del suo programma pose la creazione di un’Accademia in tutto e per tutto simile a quella ateniese. Il progetto fu in qualche modo guastato dal ritorno di Pletone a Bisanzio, ma Cosimo non si perse d’animo e si dedicò a reclutare insegnanti e a raccogliere testi con un impegno che poteva essere ispirato solo dalla convinzione di compiere una missione; inviò agenti in Oriente alla ricerca di manoscritti per arricchire la sua biblioteca, che arrivò a contenere circa diecimila volumi.
All’inizio, nonostante il suo entusiasmo, il progetto di Cosimo procedette a rilento fino a quando, dopo una lunga agonia, Costantinopoli cadde in mano dei turchi nel 1453. Una delle conseguenze del disastro fu infatti l’esodo massiccio di eruditi ed ecclesiastici, molti dei quali portarono con sé opere manoscritte dal valore inestimabile. Molti degli esuli attraversarono l’Adriatico diretti in Italia, e il loro arrivo dette nuovo impulso all’attuazione del progetto di Cosimo. Nel 1459, Cosimo chiamò a Firenze uno studente dell’università di Bologna, appunto Marsilio Ficino, a cui dette l’incarico di presiedere l’istituzione.
Pletone a Firenze presentò anche la Geografia di Strabone ( che fino ad allora era stata ignota), cosa che condusse al rovesciamento delle teorie geografiche erronee di Tolemeo. Questa nuova concezione del Rinascimento sulla configurazione della Terra, fa sì che la stessa Enciclopedia Britannica dichiari che Pletone giocò un importante, anche se indiretto, ruolo nella scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo che citò Strabone fra le sue autorità principali e che ebbe i testi dal fiorentino Paolo Toscanelli, che li aveva avuti, di prima mano, da Pletone.
Sembra inoltre accertato che tra i testi che Gemisto portò con sé in Italia per la traduzione vi fosse anche quello della Tabula Smaragdina, il più antico e fondamentale testo alchemico, che comunque era già noto in Occidente fin dal XIII secolo attraverso Alberto Magno.
Gemisto, dunque, torna a Mistrà, dove vi muore il 26 giugno 1452, un anno prima della caduta di Costantinopoli. Trascorre i suoi ultimi anni a stendere il Trattato sulle leggi, dove recupera e riadatta vari inni, preghiere e riti solari, precisandone i significati metafisici, capaci di trascendere le limitazioni delle religioni positive, alimentando una vasta letteratura, architettura, pittura, scultura e musica “solare” nel corso dell’età umanistico-rinascimentale. Purtroppo, le Leggi vennero in gran parte distrutte dall’odio teologico su istigazione del teologo Gennadio Scholarios, – da sempre, a Firenze e Mistrà, nemico di Pletone -, e che nel frattempo dopo la conquista ottomana, premiata la sua perseveranza nel difendere il potere costituito quale che fosse, era stato nominato dai Turchi Patriarca della Chiesa Ortodossa. Dal rogo del testo sono rimasti vari frammenti, dai quali e possibile ricostruire le linee generali del grandioso programma di riforma politico-spirituale, in favore del quale Pletone operò durante tutta la sua lunga vita, morendo quasi centenario.
Infine – ultimo svelamento dei misteri – in occasione della morte di Pletone, i suoi figli ricevettero dal cardinale Bessarione una magnifica lettera in lode del “nostro comune padre e maestro” nella quale immaginava audacemente, che lo spirito di Pletone si sarebbe unito alla danza degli iniziati ai misteri bacchici nell’Aldilà; di più ancora, che mentre Pletone era ancora vivo, l’anima di Platone era discesa nel suo corpo. Il tono giubilante della lettera, dalla quale Bessarione appropriatamente bandì ogni traccia di condoglianza, richiama le regole gioiose stabilite da Pletone per stimolare l’immaginazione, di cui egli aveva lasciato uno splendido esempio nella sua esortazione a mettersi in comunione con gli uomini illustri del passato.
Fatto sta che il lascito di Pletone continua ed ebbe discepoli in maggior numero di quanti potesse vantarne qualunque maestro. Il già citato, famoso e famigerato, Giorgio Trapezunzio di Trebisonda compose perfino una preghiera in cui invocava l’intercessione dei martiri per la totale distruzione della setta platonica, risorgente in Italia. C’è un fitto reticolo di accademie esoteriche, corrispondenti le une con le altre, un fitto intreccio e scambi reciproci e corrispondenze tra umanisti. Un altro allievo di Pletone, appunto il cardinale Bessarione, giunto in Italia nel 1437, al seguito del Concilio, come vescovo ortodosso di Nicea, resta in Italia, e per il suo appoggio alla Chiesa Romana, viene nominato cardinale, anzi, nel 1463, sarà addirittura investito del titolo di patriarca di Costantinopoli della Chiesa Cattolica .Nel 1468 la sua raccolta di 800 manoscritti, di cui 500 in greco, fu lasciata in eredità a Venezia e divenne il nucleo della Biblioteca Marciana, così come i libri dei Medici divennero il nucleo della Laurenziana a Firenze.
Bessarione nel 1450 aveva fondato a Roma un Accademia, un’altra, guidata da Pomponio Leto, verrà sciolta dal successore di Pio II, Paolo II, con l’arresto dei suoi membri per le solite accuse di pratica di riti pagani e accuse di cospirazione contro la Santa Sede. E’ interessante osservare che il Platina, uno degli arrestati e torturati, fu particolarmente interrogato sui suoi rapporti e sulle sue conversazioni con Sigismondo.
Infatti a Rimini, come testimonia il cancelliere fiorentino Leonardo Bruni, uno dei primi discepoli del Crisolora, esisteva un Accademia, fin dai primi anni del 1400, fondata da Carlo Malatesta, zio di Sigismondo, e che fu pertanto la prima Accademia italiana, costituitasi ben molti anni prima della fondazione fiorentina dell’Accademia di Careggi dei Medici.
Già uno storico francese che si è occupato di Pletone si chiede se queste Accademie “non fossero, in qualche modo, delle filiali di quelle di Mistrà“. Chi conosce il funzionamento delle società esoteriche e delle trasmissioni iniziatiche, che pure Pletone dispensava a Mistrà e che parrebbe strano non avesse dispensato nel suo soggiorno italiano, non può che dare una risposta affermativa.
Le accademie rinascimentali risultano assai interessanti per le analogie che presentano con successive istituzioni esoteriche inglesi (o forse per le “regole” che trasferirono ad essa). I loro statuti prevedevano un presidente (sappiamo che quella di Rimini ai tempi di Sigismondo era presieduta da lui medesimo e gli adepti qui lo chiamavano “rex“), un numero determinato di membri, tornate periodiche ed un programma da svolgere.
Le adunanze dei dotti che seguirono si organizzarono elaborando propri statuti (una delle prime ad agire in questo senso fu l’Accademia platonica di Firenze) e propri regolamenti; in taluni casi divennero vere e proprie corporazioni scientifiche e letterarie. L’Italia era la terra del Rinascimento, e le sue nuove dottrine giunsero ad Oxford, nel corso degli ultimi due decenni del secolo XV. L’interesse verso la musica dimostrato da Pletone, durante il Rinascimento, infuse uno spirito nuovo anche nella musica profana: la musica ed il canto erano intesi, infatti, come creazioni ed eredità di tutto il popolo.
La rivoluzione silenziosa attuata da Gemisto dunque continuò attraverso questo fitto reticolo di accademie, che continuarono a gemmare per oltre un secolo..
Se dobbiamo scegliere una data storica per il termine del Rinascimento non faticheremo nell’indicarla, esattamente quattro secoli fa, in quella del 17 febbraio 1600, data del rogo di Giordano. In Bruno non si scioglie tutto ciò che è stato il Rinascimento, ma è indubbio che molti degli elementi fondamentali, immessi da Gemisto nella cultura italiana e per irradiazione del Rinascimento in quella europea, operano in profondità nella sua dottrina; con lui forse, in realtà, finisce questa stagione luminosa e irripetibile, che aveva riportato la tensione spirituale di Atene nel cuore dell’Italia e dell’Europa. Anche in Bruno il pensiero si fa vita, la filosofia diviene magia. Da buon allievo di Platone, come Gemisto, egli sa che la verità è tale solo quando trasforma radicalmente chi la giunge a possedere.
Bruno è la manifestazione più elevata di quel Rinascimento “ad alta tensione” che dopo di lui si smarrisce e lentamente si dilegua, scomparendo nelle tenebre della storia, diventando parola segreta e dissimulata, dileggiata o incompresa quando si rivela. La morte di questo pensatore originalissimo sembra in tal senso simboleggiare la sconfitta di una visione del mondo: la qualità cede il posto definitivamente alla quantità.
Dunque la posta che è messa in gioco da questa parabola che va da Pletone a Bruno è sicuramente importante.
Pletone e Bruno che lo riprenderà sono i primi pensatori dell’Evo moderno a pensare in tutta consapevolezza e con insuperato rigore oltre il cristianesimo (e nello stesso tempo prima di esso).
E ancora in Bruno, come in Pletone, come in tanti altri maghi rinascimentali metafisica e religione si trasmutano in tensione politica. È da questo fondamento che maturano i continui contatti del Nolano con ristrettissime cerchie di reali, principi, ambasciatori, circoli di aristocratici illuminati e colti: Bruno per circa quindici anni, dal 1576 quando lascia il convento a quando viene incarcerato a Venezia, non è semplicemente un “filosofo”, ma l’annunciatore di un nuovo culto “egizio“, di una nuova “religion de la mente“, il profeta di un ordine politico meno corrotto e malvagio. E ciò avviene dopo essere entrato in contatto con Enrico III . Enrico III di Valois è, fra i quattro figli maschi avuti da Caterina de’ Medici ed Enrico II, il più simile alla madre, il più italiano, o meglio sarebbe dire il più fiorentino. Possiede un gusto, una raffinatezza, un’eleganza naturali che colpiscono tutti coloro che lo incontrano: sembra nato per essere principe o re, non esserlo soltanto di fatto.
In lui la grande stagione del Rinascimento italiano sembra avere trovato la sua più alta manifestazione in terra di Francia, almeno sul piano politico. Come i suoi illustri predecessori fiorentini, Cosimo e Lorenzo de’ Medici, ama le arti e le lettere; è cultore di filosofia – materia a cui dedica anche tre ore di studio al giorno prima di salire al trono – ma soprattutto ha ricreato a corte una Accademia platonica personale, dedicandosi con rara intensità allo studio di Platone, Plotino, Porfirio, Giamblico, Proclo, in una parola di tutta la tradizione neoplatonica indicata da Gemisto, studia anche i più importanti testi di magia, che non di rado fa acquistare anche all’estero.
Dopo questo incontro il Nolano diventa molto probabilmente animatore in Europa, prima in Inghilterra, alla corte di Elisabetta, poi negli stati tedeschi e in Boemia, infine in Svizzera e a Venezia, di una riforma mirante, utopisticamente, a superare le divisioni religiose che insanguinano il continente. Naturalmente si rivela qui in tutta la sua forza la dimensione anticristiana, anticlericale e antipapista che caratterizza l’azione e il pensiero di Bruno.
È a questo punto che la sua figura rivela tratti particolarmente oscuri. Anche le successive tappe del suo esilio in Europa appaiono tutte segnate, oltre che dalla sua vulcanica produzione di testi, da attività a sfondo iniziatico e politico: in tal senso va considerata ad esempio quella che pare essere la fondazione di una setta di iniziati, chiamati “Giordanisti”, che si radica in Inghilterra e in Germania, e che forse è una delle radici del movimento seicentesco dei Rosacroce. Il rientro a Venezia, e il successivo arresto ad opera dell’Inquisizione, infine la tragica morte sul rogo, nel 1600, completano il quadro di un’esistenza drammatica e irripetibile.
Divenuto già nell’Ottocento la bandiera dell’anticlericalismo, idolo dei massoni italiani (che intitolano significativamente a lui molte loro onorificenze) e stranieri, i quali, fra l’altro, non si può escludere derivino proprio dai suoi circoli di “Giordanisti” la loro origine, il debito di Bruno nei confronti di Gemisto, con la brillante esclusione di Frances Amelia Yates, è stato poco studiato.
Si tratta dunque di tornare sui testi, sui documenti, di imparare a leggerli sempre di nuovo, avendo in sospetto il “già detto”, le versioni edulcorate di episodi e fatti, le interpretazioni troppo autorevoli o non più messe in discussione, un po’ scolastiche e un po’ crociane, gli approcci pregiudiziali; si tratta, in altre parole, di fare ciò che ha fatto Pletone nei confronti della Scolastica aristotelica, ristudiare da capo ad esempio il Tempio malatestiano, con umiltà e pazienza, cercando, se possibile, i significati nascosti di cui la storia – come la vita – è sempre ricca.
I maestri della Tradizione scelsero infatti il simbolo perché esso consentiva di rendere sempre attuale il loro insegnamento: tra passato e presente, in ogni luogo dello spazio geografico, non si mostrava mai frattura, mentre nuovi significati si depositano sugli antichi in un incessante ricerca del vero.
Che l’iconografia del Tempio celi significati arcani noti solo alla cerchia della corte malatestiana era stato rivelato da Roberto Valturio, amico e consigliere di Sigismondo, che in un famoso passo del De Re Militari (XII,13) aveva alluso a “simboli tratti dai più occulti penetrali della filosofia e altrettanto atti ad attrarre fortemente i dotti quanto a permanere nascosti al volgo”.
Dunque – per concludere – il Tempio Malatestiano è una
visione imperfetta della verità a cui tendeva il platonismo italiano del Quattrocento. Fu dallo stesso Pletone, probabilmente, che Sigismondo e la corte di artisti e letterati con l’Alberti e i suoi collaboratori tra cui alcuni maestri comacini , derivarono, direttamente o indirettamente, certi testi greci su cui alcune immagini esoteriche del Tempio sembrano basarsi. Ma questa è un’altra storia e qui bisogna essere “fratelli in Platone” perché a scriverla si corre il rischio di imbattersi in qualche reincarnazione dell’anima di Gennadio Scholarios.
Un altro tempio alle dottrine di Pletone fu dipinto a Ferrara, nei Mesi astrologicamente accordati di Palazzo Schifanoia.
La più delicata pittura del Quattrocento celebrò quel momento di abbraccio illimitato del simbolo nella Primavera del Botticelli, nel più bel mazzo di carte del mondo, i Tarocchi del Bembo. Quel Bonifacio Bembo, di cui in pochissime enciclopedie rinverrete la sua biografia, nato nella stessa città di Sigismondo, Brescia, e quasi suo coetaneo, che, dopo l’arrivo di Gemisto, per cinque anni disegnò le settantotto lamine dei suoi arcani. E ancora tutti gli artisti eredi dell’esoterismo di Pletone, solo per citarne alcuni, Piero della Francesca, Dürer, Giorgione, Leonardo, Raffaello, nelle lettere Shakespeare…In campo filosofico tra i tanti animatori e sostenitori della dottrina di Pletone, oltre ai tanti già citati , ricorderemo ancora Nicola Cusano (1401-1464), filosofo e matematico tedesco, che già ai suoi tempi vagheggiava una sorta di O.N.U. , un organismo sovrannazionale, in grado di porre fine alle lotte religiose che insanguinavano l’Europa da decenni.
L’intermezzo pitagorico, platonico, ermetista del Rinascimento con il rogo di Bruno si chiudeva: fu un istante straordinario, di maturazione improvvisa di frutti preziosi, e subito stroncato.
Le menti più fini d’Europa si attennero a questa feconda avventura, a questa sapienza senza più enunciarla nei termini esaltati di Giorgio e di Giordano; intanto altre guerre mostruose facevano scontrare cattolici e protestanti e poi credenti e illuministi. A chi considerasse senza pregiudizi, appariva chiaro che l’ebraismo era una sintesi di sapienza cananea, egizia e babilonese, che il cristianesimo aveva tessuto su di una trama ebraica i fili del mitraismo e dei culti di Iside. C’era un luogo intellettuale dove ebraismo, cristianità ed islamismo e altri culti potevano discorrere, incontrarsi e comprendere insieme la realtà e quello spazio attraeva ogni uomo qualificato nella misura in cui era prossimo all’unità. Quello spazio, da alcuni secoli segreto, anche grazie a Gemisto e le sue Accademie in una catena ininterrotta, esiste ancora….
Moreno Neri
Riferimenti bibliografici
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PER SAPERNE DI PIÙ
Giorgio Gemisto Pletone, Trattato delle virtù,
Traduzione e cura di Pavlos Jerenis, Raffaelli Editore, 1999, Rimini – L.
18.000 E 9.3
Charles Mitchell, Le Raffigurazioni del Tempio
Malatestiano, Traduzione e cura di Moreno Neri, Raffaelli Editore, 2000,
Rimini – L. 18.000 E 9.3
Giorgio Gemisto Pletone, Delle Differenze fra Platone ed
Aristotele, Traduzione e cura di Moreno Neri, Raffaelli Editore, 2001,
Rimini – L. 18.000 E 9.3 (· )
Moreno Neri, Giorgio Gemisto Pletone De differentiis,
Raffaelli Editore, 2000, Rimini – L. 16.000 E . (·
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27/01/2001 |
Charles Mitchell “Le raffigurazioni del tempio…” |
LA VOCE di Rimini |
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20/02/2001 |
Serata sul Tempio Malatestiano |
CORRIERE DI ROMAGNA |
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17/03/2001 |
Gemisto Pletone “De differentiis” |
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25/03/2001 |
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16/05/2001 |
La tomba “eretica” della quarta arcata |
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09/06/2001 |
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UNA MISTERIOSA FRATELLANZA
In un passo della Introduzione a Delle
Differenze fra Platone ed Aristotele
Moreno Neri confessa che il suo interesse per Giorgio Gemisto Pletone
…s’incarnò per la prima volta il 27 ottobre 1998 quando
una delegazione di ventisette greci giunse, anche a mio beneficio, a sottrarre
senza schiamazzo, il suo nome dall’oblio, elevando per un istante alla terza
arca del tempio uno stefano di alloro, palme, mirto e rose. Parve ottimo segno
dei tempi sulle cui circostanze ci si deve inchinare all’invito d’uno dei
frammenti degli oracoli caldei a “mantenere il silenzio”.
Il silenzio va mantenuto nei confronti dei profani, può
essere rotto per i Fratelli del Rito. Digitando i codici d’accesso dell’Area
riservata vi appariranno delle immagini che sveleranno il mistero della
delegazione greca.