I simboli compiono da sé la loro opera (Giamblico)Hic est sensus, qui habet sapientiamQui ci vuole una mente, che abbia saggezza
(Apocalisse)
Nella prefazione alla “Simbologia Massonica” il Fr. Ivan Mosca ammonisce il lettore a non ricercare il manuale dell’iniziato, perché “ogni simbolo, ogni strumento, ogni canone sono supporti atti a catalizzare, a sorreggere, a coadiuvare il lavoro interiore”.
È possibile dunque che un tappeto orientale, peraltro di non pregiata fattura, trasmetta all’osservatore attento un messaggio segreto, esoterico, nascosto fra le pieghe dei simboli che ne ornano il disegno? Credo di sì, e, d’altro canto, per dirla col Vangelo, “lo spirito soffia dove vuole” (1).
Sorge però, spontanea, una domanda: perché il simbolo? Perché il suo linguaggio allusivo? Quali ne sono la ragione ed il significato? La risposta, in realtà, è estremamente semplice: emozioni, intuizioni, sentimenti non possono essere né spiegati né descritti, almeno chiaramente; profondamente radicati nell’intimo dell’animo umano, non scalfiti dalla ragione discorsiva, essi attingono all’ineffabile, per esprimere il quale le parole non sono mai adeguate.
Eppure, paradossalmente, questo uomo messo a nudo non perde la propria dignità, non si degrada al livello di bestia: al contrario, egli ritrova l’innocenza perduta e si eleva ad uno stato edenico, beatifico, riscoprendo così quel medesimo ceppo dal quale, secondo Pindaro, uomini e dei discendono entrambi.
Prima di comunicarvi le mie riflessioni è opportuno che vi mostri uno schizzo del tappeto in parola, nel quale mi sono sforzato di evidenziare quelle che ritengo siano le sue caratteristiche più salienti.
Come potrete osservare, vi sono delle rose, disposte a intervallo regolare lungo il perimetro, quindi un rovo. Due alberi, uguali e speculari l’uno all’altro, abbracciano un quadrato, all’interno del quale, in successione, troviamo una stella a otto punte, una croce gammata, una circonferenza ed un punto.
La rosa e il rovo
Le rose si sono svegliate di buon mattino per fiorire
e sono fiorite per invecchiare.
In un bocciolo hanno trovato la vita e la morte.
Gli stupendi versi di Calderòn de la Barca confermano che la rosa è il simbolo per antonomasia della realtà in divenire, della manifestazione in fieri. René Guénon, studiando il simbolismo così detto ‘naturale’, afferma che la rosa in occidente ed il loto in oriente hanno lo stesso significato, la produzione della manifestazione (3).
Personalmente, però, ritengo che la rosa possa interpretarsi anche come il simbolo di una nuova dimensione coscienziale, propria dell’uomo che, inquieto, interroga se stesso, che anela ad una nuova spiritualità, eminentemente euristica, che, in altre parole, è pronto per diventare iniziato.
Se, da un lato, l’accostamento della rosa al rovo può sembrare del tutto naturale, è peraltro possibile che, nel contesto al nostro esame, quest’ultimo abbia invece un significato affatto particolare. Il nostro rovo corre infatti lungo il perimetro del tappeto, quasi avesse una funzione di recinzione, di separazione fra ciò che è al suo interno da tutto il resto.
Ebbene, anche il tempio massonico assolve lo stesso compito. La parola “tempio” deriva dal latino templum che in origine designava il tratto di cielo che l’augure circoscriveva con il lituo, isolandolo idealmente dal resto. La radice tem si ritrova pure nella lingua greca, dove témenos significa recinto sacro e témno tagliare, e quindi separare, dividere.
In questo senso è lecito ripetere con il Fr. Fichte che la Massoneria è una società segreta, cioè separata dal mondo profano, nella quale i fratelli sono spronati a “… che si facciano seri sforzi per trovare questa sapienza, e che la si accolga con gioia, dopo averla trovata e confermata nel proprio intelletto e nel proprio cuore” (4).
L’iniziando dovrà superare il rovo, e l’impresa non è da tutti: occorrono coraggio, fermezza e, soprattutto, perseveranza.
“Gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto”, è stato detto dal Fr. Tagore.
Meno poeticamente di lui, osservo che, considerato singolarmente, l’albero può essere il simbolo dell’uomo, i piedi per terra e la testa rivolta al cielo. Nel nostro caso, però, gli alberi sono due, uguali e speculari tra loro: è spontaneo l’accostamento all’Albero della Vita ed a quello della Conoscenza del Bene e del Male.
Nella Bibbia è scritto che al centro del giardino dell’Eden fu posto un albero, il cui frutto, se mangiato, avrebbe comunicato l’immortalità (5). Collocato però nel medesimo posto vi è pure un altro albero, quello della Conoscenza (6).
Poiché non è fisicamente possibile che due oggetti diversi occupino contemporaneamente la stessa porzione di spazio, è verosimile che i due alberi non siano altro che aspetti diversi di un’unica realtà. Se questa ipotesi è esatta, ne consegue che la dualità è male, nel senso che ci separa dall’Uno, e deve essere pertanto superata dialetticamente da chi vuole ottenere la Conoscenza che dà la Vita. Quest’uomo affronterà allora un lungo viaggio, dall’esteriore all’interiore, dal celato al manifesto, dal fenomeno al noumeno, dalle tenebre alla luce; la meta è l’essenza stessa dell’Infinito: il mistero dell’Unità.
Ma allora, la realtà che ci circonda è pura illusione? Il dilemma è stato risolto da Shankara, il grande filosofo indiano: la realtà è tale solo se rapportata alla conoscenza del relativo, è invece illusione, maya, a cospetto dello Assoluto. Per esprimere questo concetto si fa l’esempio dell’uomo che, entrato in una stanza buia, scambia una corda per un serpente e prova paura, fin tanto che non si accorge di come stanno effettivamente le cose. Per svelare l’illusione insita nella realtà ‘relativa’ occorre che questa sia dunque esaminata, a cominciare da quella che ci è più vicina, la Natura, e con ciò siamo pronti per passare al simbolo successivo.
Questi simboli sono strettamente interrelati fra loro e li esamineremo pertanto congiuntamente, posponendo però la stella in ultimo.
Cominciamo dal quadrato. Esso è, anzitutto, simbolo della materia, quindi della Natura, sia creante che creata.
Secondo i presocratici quattro erano gli elementi che formavano l’Universo: terra, aria, acqua e fuoco.
Lo stesso numero quattro è una cifra cosmica, basti pensare ai punti cardinali, ai venti, alle stagioni. Ancora, ricordiamo i quattro esseri viventi ai piedi dell’Agnello, nell’Apocalisse (7), il primo dall’aspetto di leone (coraggio), il secondo di toro (perseveranza), il terzo di uomo (intelligenza), il quarto di aquila (spirito).
In psicanalisi il quadrato è anche il simbolo della realizzazione coscienziale della realtà. Nella simbologia massonica al quadrato corrisponde la squadra, simbolo del lavoro interiore che incombe su tutti i Fratelli, in particolare sugli Apprendisti.
La circonferenza simboleggia invece la dimensione intellettuale, spirituale. Massonicamente parlando vi corrisponde il compasso, lo strumento che aprendosi progressivamente – ma non illimitatamente – traccia circonferenze sempre più grandi, simbolo perciò dell’apertura mentale dell’uomo, capace di dimensioni sempre maggiori, di obiettivi sempre più ambiziosi, pur con la coscienza del limite.
Durante i lavori di loggia, squadra e compasso si trovano sull’ara, sovrapposti al libro sacro: il massone, come Gandhi, rifiuta “qualsiasi dottrina religiosa che non si appelli alla ragione e sia in conflitto con la morale” (8).
La circonferenza è anche la figura geometrica nella quale non è dato distinguere il principio dalla fine, donde è simbolo dell’eternità e quindi di perfezione; per questo motivo – asserisce Platone – il Demiurgo creatore del mondo ha dato a questo ultimo la forma della sfera, “… la più perfetta di tutte e la più omogenea a se medesima, convinto che l’omogeneo è infinitamente più bello di ciò che non è tale” (9).
Presso i popoli primitivi la circonferenza con il punto centrale è ancora la raffigurazione del sole, il cui calore è associato all’amore, e la luce alla bellezza e alla verità. Nel lamaismo tibetano il cerchio a quattro o a otto raggi, riccamente figurato, il così detto mandala, è un supporto meditativo di grande importanza. Di regola, i mandala rappresentano il cosmo nelle sue relazioni con le divinità.
In psicanalisi, infine, la circonferenza simboleggia la totalità, il Sé assoluto (10). E veniamo alla stella ad otto punte. Queste ultime, se unite, formano l’ottagono, che è il primo poligono che si ottiene passando idealmente dal quadrato alla circonferenza. Si comprende perciò perché i battisteri avessero in origine forma ottagonale: il battesimo era considerato un rito di passaggio, dalla terra al cielo, dalla materia allo spirito.
Simbolo antichissimo e veramente universale quello della croce, che ci ha spinto a riflessioni che non è però possibile ripetere per intero in questa sede (11).
Brevemente, rammenteremo che il punto d’intersezione delle due braccia è il simbolo del Principio universale, dove gli opposti cessano di confliggere e diventano complementari, riducendosi armonicamente ad unità: per questo motivo nell’esoterismo islamico, ed anche in quello ebraico, esso è chiamato Shekinàh, Palazzo Santo, la dimora dell’Uno che È.
Molto interessanti sono le riflessioni sulla croce svolte da Aniella Jaffé, che propongo alla vostra attenzione:
“Il simbolo centrale dell’arte cristiana non è il mandala, ma la croce, o il crocifisso. Fino all’epoca carolingia la croce equilatera, o greca, costituiva il punto comune, e pertanto era in essa implicito il motivo mandala. Ma, col passar del tempo, il punto focale si è spostato in direzione della sommità della croce, finché la croce ha assunto la forma latina, con i suoi bracci, orizzontale e verticale, di misura ineguale, così come è il tipo oggi diffuso. Questo sviluppo è importante, perché trova una precisa corrispondenza nello sviluppo interiore della cristianità fino all’alto Medioevo. In termini elementari, esso simboleggiava la tendenza a spostare il centro gravitazionale dell’uomo, e la sua fede, dal livello della terra, e a ‘elevarlo’ alla sfera spirituale. Tale tendenza originava dal desiderio di tradurre in azione la parola di Cristo: “Il mio regno non è di questa terra”. La vita terrena, il corpo, il mondo erano dunque entità che era necessario sopraffare. Le speranze dell’uomo medioevale venivano così dirette verso l’aldilà, perché era solo in paradiso che si poteva realizzare la promessa dell’appagamento integrale.” (12)
Conseguenza di questo ‘spostamento’ è stato il contrasto tra fede da un lato, ragione e scienza dall’altro, che ha lacerato la coscienza di tanti credenti, in particolare nel XX° secolo. Sono personalmente dell’opinione che tale contrasto sia assolutamente immotivato; chiunque afferma di aver percepito l’unità essenziale, pur nella variegata molteplicità fenomenica, ne darà la prova anzitutto attraverso il comportamento, non abbandonandosi dunque né a irrazionali estasi né a sterili ascetismi; sappiamo bene come certe fughe dalla realtà mascherino piuttosto l’incapacità di far fronte a situazioni difficili, rivelando l’immaturità di un fanciullo che non è mai cresciuto. È stato detto che “la vita dell’uomo è milizia in terra” (13), pertanto ogni suo gesto, ogni sua azione dovranno essere improntati all’equilibrio, simbolo di quella Armonia Universale che testimonia l’esistenza e l’opera del Grande Architetto.
L’uomo che riesce in questa impresa non avrà più bisogno di maestri, perché sarà egli Maestro a se stesso. In questi termini è l’esortazione rivolta da Virgilio a Dante, al momento del commiato:
Non aspettar mio dir né più mio cenno
libero, forte e sano è tuo arbitrio
e fallo fora non fare a suo senno
perch’io te sovra te corono e mitrio. (14)
Siamo così giunti all’ultimo simbolo del tappeto: il punto.
Il quale, come ci insegna la matematica, non ha dimensioni e dunque è invisibile, al pari del Principio universale di cui è simbolo. Ecco perché “… il Regno di Dio non viene con clamore, né si dirà: è qui o là. Perché il Regno di Dio è dentro di voi” (15). A questo punto è opportuno aprire una parentesi. La versione corrente, “il Regno di Dio è in mezzo a voi”, oppure “fra voi”, mi sembra, se non errata, quantomeno fuorviante. La preposizione “fra” indica infatti un’entità posta fra due termini collocati nello spazio, senza peraltro indicare la relazione di interiorità o esteriorità avuto riguardo all’entità medesima. La traduzione “dentro” – nel testo latino intra, in quello greco entòs (16) – è invece a mio giudizio preferibile, perché designa la posizione di centralità interiore, introducendoci così al simbolismo del Centro. È un simbolismo ricco e vario; tra gli aspetti più comuni ricorderemo – oltre al punto centrale della croce – la grotta (emblematica quella di Betlemme), la montagna, il gabinetto di riflessione, e, soprattutto, il cuore. È molto frequente l’immagine devozionale di Gesù che offre il proprio cuore: ebbene, se egli è la Via, il suo cuore è la meta finale dove si trova la Verità che dà la Vita.
La verità va dunque cercata in interiori, l’iniziato deve ritornare in se stesso, come lo Ouroboros, il mitico serpente che mangia la sua coda. Solo nella propria interiorità l’uomo è capace di ritrovare il Principio, la cui presenza all’esterno avverte invece confusamente, per speculum et in ænigmate.
Questo Principio è identico a se stesso, a livello sia micro- che macrocosmico. Ce ne danno conferma i simboli che abbiamo ora esaminato. Torniamo alla croce. Abbiamo parlato delle sue braccia immaginandole come due rette che corrono all’infinito. Pensiamo invece ad una croce minima, formata cioè da due segmenti, lunghi ciascuno tre soli punti. Questa croce, che può essere vista soltanto con gli occhi della mente, tanto è piccola, è tuttavia in essenza identica a quella, formata dalla intersezione di due rette. Ne deduciamo che il Principio permea di sé ogni esistenza; ogni manifestazione trova la propria giustificazione “grazie a una partecipazione alla Sua essenza e nella misura di tale partecipazione” (17).
È allora chiaro il significato di un’altra parabola, quella in cui il “Regno di Dio” è paragonato al granello di senape “… che un uomo ha preso per seminare nel suo campo; esso è il più piccolo fra tutti i semi, ma quando è cresciuto è la più grande di tutte le piante e diventa un albero sui cui rami si posano gli uccelli del cielo” (18).
Unica essendo la Tradizione, non deve stupire che questo concetto sia tramandato anche dalle Upanishad; ne trascrivo la versione – mirabile per il lirismo – concludendo così queste mie riflessioni:
“Costituita d’intelletto, con il soffio vitale per corpo, la luce per aspetto, la verità per oggetto del pensiero, lo spazio etereo per essenza, fonte di ogni attività, di ogni desiderio, di ogni odore, di ogni sapore, comprendente tutto l’universo, muta, indifferente, questa mia anima dentro il cuore è più piccola di un grano di riso o d’orzo o di sesamo o di miglio o del nucleo di un grano di miglio. Questa mia anima dentro il cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo, più grande dei mondi. Fonte d’ogni attività, di ogni desiderio, di ogni odore, di ogni sapore, comprendente tutto l’universo, questa è la mia anima dentro il cuore, questo è il Brahman. Non c’è più dubbio per colui che pensa: «Uscito da questo mondo io lo raggiungerò»” (19).
- (1) Giovanni 3,8
- (2) M. Eliade, Immagini e Simboli, Jaca Book, Milano 1987, pag. 16
- (3) R. Guénon, I fiori simbolici in Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1978 pag. 73
- (4) G. A. Fichte, Filosofia della Massoneria, Roma 1945 pag. 120. Ristampa a cura della Libreria Ecumenica, Milano
- (5) Genesi 2,9
- (6) Genesi 3,3
- (7) Op. cit. 4,6
- (8) M. K. Gandhi, Antiche come le montagne, Ed. di Comunità, Milano 1983, pag. 107 n. 84
- (9) Timeo VII, 33 b
- (10) M. L. von Franz, Il processo di individuazione, in C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Mondadori 1985 pag. 227
- (11) G. Lombardo, Il simbolo della croce, in Hiram 1986 pag. 150
- (12) A. Jaffé, Il simbolismo nelle arti figurative, in C. G. Jung, op. cit. pag. 265
- (13) Giobbe 7,1
- (14) Purg. XXVII, 139-142. La corona era il simbolo del potere temporale, la mitra invece di quello spirituale.
- (15) Luca 17,21
- (16) Per entrambe cfr. A. Merk S. J., Novum Testamentum græce et latine, ed. X, Roma 1984
- (17) R. Guénon, Il granello di senape, op. cit. pag. 382
- (18) Matteo 13,31
- (19) Chandogya Upanishad, III Prapathaka, XIV Kanda, shruti 3