Un dolce canto intonarono: o molto illustre Ulisse … su via, qua vieni, ferma la nave, e il nostro canto ascolta. (Odissea, XII, vv. dal 183).
Con questi versi di Omero, Alessandro De Nicola ha aperto un interessante articolo su un numero del Foglio del mese scorso. Senza saperlo, Omero è stato, secondo lo studioso J. Elster, il primo costituzionalista della storia. Una delle spiegazioni che si danno sul perché nascono le costituzioni – intese come regole fondamentali della vita associata, che si cambiano solo attraverso procedure molto elaborate – viene infatti dalla stessa logica di Ulisse: “non mi fido della mia razionalità futura e quindi mi costringerò a non essere irrazionale”. E quindi, nonostante l’eroe omerico ardì passare con disarmati orecchi davanti alle Sirene, si salvò grazie al suggerimento della maga Circe di farsi legare saldo all’albero della nave. Dal punto di vista del costituzionalismo liberale moderno, le Sirene sono state identificate nei demoni dello Stato e del potere politico, che illudono chi detiene le redini del comando di essere l’unico in grado di poter guidare il popolo e che a tal fine i diritti individuali possono a poco a poco essere compressi.
Sulla base di questa premessa è lecito domandarsi quanto la bozza di Trattato istitutivo di una Costituzione Europea sia liberale. E che sia una domanda di non poco conto lo dimostra l’intensità del dibattito che il Trattato ha provocato in tutta Europa su temi nevralgici: libero mercato e solidarietà, laicità delle istituzioni e professione dei fondamentali valori cristiani dell’Europa, uguaglianza e libertà d’istruzione. Sopra a tutte queste tematiche si colloca la fondamentale questione della limitazione del potere politico di fronte ai diritti individuali dei cittadini europei: quanto più grande e lontano appare il potere politico del futuro governo d’Europa, tanto più sembrano angusti e minacciati gli spazi della libera iniziativa dei singoli abitanti del Continente. Le diversità di vedute registrate su questo tema tra gli aspiranti Padri Fondatori dell’Unione Europea si sono rivelate talmente profonde, che non pochi commentatori non hanno esitato a evidenziare l’esistenza di due diverse concezioni dello Stato liberale e dei diritti individuali dei cittadini, concezioni che possono coesistere, e di fatto coesistono da più di un secolo, all’interno della cultura giuridica e politica europea, ma che non possono essere confuse.
A questo proposito Angelo Panebianco ha denunciato il mancato apprezzamento da parte di molti europei della distanza che esiste tra l’anglosassone rule of law e il continentale ‘Stato di diritto’. Alla definizione di quest’ultimo hanno contribuito tanto la dottrina tedesca quanto la tradizione rivoluzionaria francese. Il lascito principale di quest’ultima è infatti un’organizzazione dello Stato in cui l’organo principale è il Parlamento e la legge diventa lo strumento principale dell’attività della Stato che gli organi giudiziari hanno il compito di applicare. Il legicentrismo – poiché di questo si tratta, la legge identificata con la legislazione prodotta dai parlamenti – di origine francese nel corso dell’Ottocento si incontra con la costruzione teorica tedesca dello ‘Stato di diritto’ e questo incontro segna profondamente il liberalismo continentale che da quel momento identifica lo ‘Stato di diritto’ con la quintessenza del liberalismo stesso.
Nella concezione continentale per ‘Stato di diritto’ si intende un ordinamento statale in cui le potestà pubbliche, incidenti direttamente ma anche indirettamente sulla sfera giuridica dei cittadini, devono sempre essere assegnate da un pubblico potere da una norma di legge. Le condizioni necessarie perché uno ‘Stato di diritto’ possa affermarsi sono un preesistente Stato burocratico, che monopolizzi le risorse coercitive, e un ordinamento giuridico fondato sul primato della legge positiva. La dottrina della sovranità statale, con il sancire la separazione dello Stato dalla società, diventa inoltre un potentissimo strumento storico per l’affermazione del potere esclusivo del primo, che priva la seconda di ogni potestà originaria (N. Matteucci). In altri termini, il liberalismo continentale partorisce una dottrina statalista che, riconducendo tutte le fonti del diritto allo Stato, consolida l’idea del suo primato rispetto alla società. Anzi, il compito dello Stato diventa quello di conformare la società. Mentre adempie il suo compito lo Stato può accettare di autolimitarsi, assicurando così ai cittadini uno spazio di libertà garantito dalle leggi. Si tratta però, evidentemente, di una garanzia labile. I soli veri limiti che esso incontra stanno nella codificazione del diritto privato che tutela l’autonomia dei singoli e nei vincoli imposti al potere legislativo dalle categorie dogmatiche elaborate dalla dottrina giuridica. Tutte cose che la democrazia di massa del ventesimo secolo ed i vari totalitarismi pregiudicheranno seriamente. La stessa partecipazione elettorale dei cittadini in questo quadro arriverà ad essere concepita alla stregua di una funzione pubblica come le altre. Si afferma insomma un ideologia basata sulla concezione dello Stato come paladino di un interesse generale superiore e diverso dagli interessi particolari degli individui e dei gruppi sociali di cui gli individui fanno parte.
Il rule of law anglosassone si è invece sviluppato in condizioni storiche profondamente diverse. In Inghilterra non è mai sorto un apparato amministrativo centralizzato così forte da consentire al sovrano di annullare o ridimensionare il potere dei ceti; non ha mai attecchito il mito della sovranità statale; i giudici non sono mai stati inquadrati all’interno della burocrazia statale. Il diritto anglosassone è un diritto spontaneo legato alla concezione medievale secondo la quale una legge non promana dalla volontà di un’assemblea legislativa, ma viene dichiarata e scoperta all’interno delle consuetudini della società. Solo quando si ravvisa l’esistenza di una lacuna intervengono con funzioni suppletive il Re e il Parlamento. In un certo senso la sovranità non è mai stata sottratta alla società e il diritto non è mai stato ridotto alla sola legislazione. Per gli anglosassoni il diritto è qualcosa da scoprire piuttosto che da decretare e nessuno è così potente nella società da poter identificare la sua propria volontà con la legge del Paese. Di fondamentale importanza in questo quadro è il principio costituzionale che per la regola del precedente tutela i diritti della persona così come sono stati fissati dalle sentenze delle corti su casi particolari, su specifiche controversie. In quest’ottica il diritto non si impone ai più in virtù della forza monopolizzata dallo Stato, ma è il prodotto di un’attività decentrata che promana da un gran numero di sentenze dovute alle decisioni di tanti giudici che si accumulano nel tempo e attraverso le generazioni, decisioni che tengono conto delle tradizioni e del patrimonio giuridico accumulatosi all’interno della società.
La mancata comprensione della differenza tra questi due modi di concepire l’idea di diritto e del ruolo dello Stato sottende forse la difficoltà a comprendere due diversi significati di libertà, dietro i quali è possibile intravedere anche una diversità originaria nella concezione dell’uomo. Proprio un convegno tenutosi a Trieste tra studiosi di ispirazione liberale ha portato alle definizione di queste concezioni. Da un lato, abbiamo la visione dell’uomo come un misto di bene e di male; dall’altro, invece, un’altra impostazione secondo cui l’uomo è originariamente buono e sono poi le istituzioni che generano il male che non sarebbe dunque originario.
Entrambe le visioni maturate all’interno del liberalismo riposano sulla legge naturale la cui legittimità, a sua volta, si basa sulla convinzione che vi sia un ordine naturale delle cose riconoscibile dall’uomo sin dalla nascita, per cui anche un bambino è in grado di distinguere tra bene e male ed è naturalmente portato al bene (non vi è dunque intrinseca malvagità nell’uomo). Dove si registrano le differenze è tra chi sostiene che l’uomo, pur essendo ordinato al bene, è anche suscettibile alla tentazione del male, e chi vede invece nell’azione malvagia il prodotto di cause di cui sono responsabili le strutture sociali e ideologiche dominanti e infine gli uomini che tali strutture governano e incarnano. Dalla prima impostazione discende una concezione più realistica dell’uomo. Proprio perché si presuppone l’uomo come limitato, la politica si presuppone come limitata e si diffida dunque di una politica assoluta posta in essere dall’idea di un futuro uomo assoluto o perfetto. Dall’altra impostazione, quella che vede nel sistema sociale il fardello di cui liberarsi, deriva invece l’idea che un potere politico molto forte possa essere giustificato dalla finalità di rompere le strutture sociali che vengono percepite come male.
Da queste diverse concezioni promana necessariamente un diverso atteggiamento del potere statale di fronte alla libertà d’iniziativa privata dei singoli cittadini. Nel primo caso l’attività dello Stato sarà limitata e circoscritta a quelle attività che i cittadini, singolarmente o liberamente associati, non potranno sostenere, lasciando il resto all’attività che i cittadini riterranno più consona la perseguimento della loro felicità. Lo Stato svolgerà la funzione di arbitro che formula e garantisce le regole di giusta condotta senza però partecipare al gioco. Esso deve soltanto organizzare la libera vita dei cittadini che sono i suoi unici proprietari. Nel secondo caso lo Stato eserciterà una funzione primaria di definizione e perseguimento del bene dei cittadini lasciando a quest’ultimi solo l’esercizio di quelle attività i cui risultati avranno un impatto collettivo nullo o trascurabile. Lo Stato avrà la funzione di produrre beni e servizi collettivi conformando l’attività di mercato all’interesse generale, svolgendo non il ruolo di arbitro, ma quello di giocatore principale.
Non sarà difficile in quest’ottica rivedere i principali temi del contendere di questi giorni a Bruxelles.
Per quanto riguarda la politica economica dell’Europa inevitabili sono le divergenze tra i sostenitori di un’economia di mercato, definita principalmente dalle scelte e dagli interessi dei singoli, e i sostenitori di una politica economica comunitaria organizzata da una competente e specializzata burocrazia in grado di definire scelte economiche non egoiste e improntate al principio della solidarietà. Oppure, a riguardo dell’istruzione, tra i sostenitori del diritto di ciascun cittadino di scegliere la forma d’istruzione più consona ai propri valori etici e religiosi e i sostenitori di una forma d’istruzione pubblica in grado di conformare senza discriminazioni tutti i cittadini ai valori etici e politici che stanno alla base della vita sociale di tutti i cittadini.
Spinti anche dell’attualità di questi temi numerosi opinionisti hanno affrontato il tema delle “due libertà” dell’Occidente, sottolinendone i diversi esiti sul piano storico. Così Adornato, nel summenzionato convegno di Trieste, ha rilevato come le esperienze politiche anglosassoni non abbiano mai dato luogo alle forme di autoritarismo e talvolta di totalitarismo così frequenti nel Continente, configurando così le diversità tra le due libertà in termini di giudizio di valore. Qualche volta, non sempre, gli studiosi si sono divisi per schieramento politico. Abbiamo perciò assistito alla semplicistica divisone tra commentatori vicini al pensiero moderato inneggiare alla libertà di Filadelfia e di converso opinionisti progressisti che ribadiscono i valori dell’89.
Personalmente non ritengo utile definire la relazione tra le due concezioni di libertà in termini di giudizio di valore, o facendo riferimento ai due poli politici che si contendono il governo del processo d’integrazione europea del nostro paese. Pur ritenendo valida la descrizione delle due visioni liberali, quella anglosassone e quella continentale, e la loro formazione storica nei termini tracciati da Panebianco, non riuscirei comunque a stabilire in maniera assoluta quale delle due forme abbia garantito una maggiore libertà per i cittadini. Se, infatti, è vero che nelle esperienze liberali del Continente europeo assistiamo a un fenomeno di centralizzazione della legge e della supremazia dello Stato sulle altre associazioni presenti nella società, è anche vero che questi fenomeni non possono essere descritti nei soli termini di una prevaricazione dello Stato di fronte alla società. Infatti, storicamente abbiamo due forme di centralizzazione: quella volta ad affermare il centralismo statale attraverso una struttura burocratica che limita e talvolta opprime le autonomie locali, culturali ed economiche dei cittadini (la Germania di Bismark, l’Italia postunitaria, la Francia giacobina) e un’altra volta invece a garantire l’eguale applicazione della legge nei confronti di tutti i cittadini indipendentemente dal loro status o dalla loro collocazione geografica (a questa forma di centralizzazione vanno ascritte alcune esperienze storiche quali, ad esempio, la legislazione sull’istruzione pubblica nella Terza Repubblica francese e le politiche di rimedio alla sperequazione economica attuate dalle socialdemocrazie austriaca e tedesca). Come rovescio della medaglia anche le migliori forme di centralizzazione hanno portato le società europee del Continente ad essere sottoposte ad un marcato controllo che alcuni studiosi hanno definito come “verticale”.
È a ragione di questo controllo che anche attività non strettamente legate a funzioni pubbliche sono tuttavia consentite solo dietro rilascio di autorizzazioni oppure svolte direttamente, spesso in forma esclusiva, dalla Pubblica Amministrazione (sanità, pubblica istruzione, intermediazione del mercato del lavoro, disciplina dei rapporti con le Chiese). Tutto questo in nome di un interesse pubblico definito, pressoché esclusivamente, da chi detiene il potere politico.
Nella tradizione liberale anglosassone questo è presente in forme assi contenute, specialmente una volte concluse le parentesi del New Deal democratico negli USA e del Welfare State liberalsocialista in Gran Bretagna. In questi paesi l’istruzione pubblica svolge oggi un ruolo meramente suppletivo a quella privata, i cittadini scelgono la forma di assistenza sanitaria più consona alle loro scelte economiche e le Chiese provvedono autonomamente alla raccolta dei fondi e dei mezzi di sostentamento – salva la Chiesa Anglicana in Inghilterra.
Tuttavia, mi risulta difficile sostenere che nell’America di Eisenhower i cittadini fossero, ad esempio, più liberi che nella Francia di De Gaulle. Nelle società ispirate alla tradizione liberale non continentale sussiste infatti, al posto del controllo verticale sopra descritto, un altrettanto stringente controllo orizzontale praticato dai più vasti settori economici e sociali che costituiscono il cemento di società spesso assai più conformiste di quelle europee. Questo garantisce, è vero, la necessaria coesione sociale che altrimenti, in assenza di rigidi controlli amministrativi, non potrebbe essere garantita. Tale controllo si afferma attraverso l’uniforme attuazione di comportamenti sociali e culturali collettivi determinati dalle forze politiche e sociali più conformiste e se è vero che non si traduce in leggi e atti amministrativi coercitivi per i cittadini, spesso limita e comprime l’azione delle minoranze in termini assai più evidenti che nell’Europa continentale. Si pensi ad esempio, a titolo esemplificativo, alle limitazioni dei diritti civili e politici delle minoranze etniche e culturali vigenti negli Stati uniti sino al 1967 o nell’Irlanda del Nord sino agli anni settanta.
Personalmente non ritengo neppure conveniente ricondurre la diversità delle due diverse concezioni di libertà presenti in Europa e nell’Occidente in genere ad una dialettica tra forze moderate e progressiste; in entrambe le esperienze, infatti, abbiamo come regola costante l’alternarsi al governo di forze politiche di diversa ispirazione.
Così, la concezione statalista del liberalismo continentale è servita tanto di supporto per politiche di segno conservatore quanto di segno progressista e nessuno dei due schieramenti maggiormente rappresentativi in Europa, quello popolare e quello socialista, ha mai pensato di discuterne i presupposti fondamentali. Di converso, anche il mondo anglosassone ha conosciuto e conosce esperienze politiche di segno progressista non meno efficaci di quelle registrate nel Continente che solo in casi limitati hanno fatto leva esclusivamente sull’intervento dello Stato, preferendo, in linea di massima, l’incoraggiamento e la promozione di azioni collettive di organizzazioni sindacali e di libere associazioni espresse dalle minoranze.
In un ottica priva di rigidità culturale e ideologica il dibattito apertosi in Europa tra gli esponenti delle “due libertà” non può che sortire effetti positivi se tutti gli europei coglieranno l’occasione di integrare la propria nozione di libertà con l’apporto di forme culturali ed esperienze politiche diverse. Il dibattito acceso dalla bozza di trattato di Costituzione rappresenta a mio avviso un segno di vitalità della cultura politica europea che questa volta deve pronunciarsi non su generiche dichiarazioni di fede ideologica, ma su temi che realmente incidono sulla vita e la libertà dei cittadini, definendone la stessa nozione.