Prevalenza dell’elemento umano e disordine della misura in due miti dell’occidente

Nell’odierna società profana, non a caso definita “società della comunicazione”, sembriamo ogni giorno come travolti da notizie, cronache di cui la falce di Crono-Saturno, il tempo inesorabile, procurerà di mostrarne la fragile minuzia, quando non l’inezia. Al contrario nel mondo antico il tempo era incentrato su un mitico fatto che lo spezzava e ricapitolava. E se si provvedeva a delineare una storia o una cronaca, essa era considerata un progresso o un regresso rispetto a quel fatto che era il fine dell’uomo e che all’uomo forniva la misura ultima d’ogni giudizio. Se gli antichi si preoccupavano di delineare le cronache del mondo, e perciò di comunicarle, non esitavano a ravvisarvi un progresso verso forme più scadenti e materiali, un allontanamento dal fine. Per l’Occidente fu regola il racconto platonico d’un regno perfetto, l’Atlantide, dal quale l’umanità avrebbe tralignato in modi sempre più disperanti.

Nel Crizia (120 D-121 B) Platone, alla luce dei testi ispirati dagli egizi, racconta come i re dell’Atlantide avessero saputo reggere in equilibrio

per lunghe generazioni, e fintanto che dominò in loro la natura di Dio, finché quei re furono ossequienti alle leggi e restarono avvinti al Principio divino cui erano affini. I loro pensieri erano veraci e magnanimi, erano ad un tempo calmi e riflessivi di fronte agli imprevisti della vita e nei loro reciproci rapporti. Sdegnosi di tutto fuorché della virtù, talché tenevano in minimo conto i loro beni e portavano come un fardello la congerie d’oro e d’altre ricchezze…Però quando l’elemento divino prese in loro a decadere per effetto del ripetuto incrocio con elementi mortali, quando in loro prevalsero i caratteri umani, allora persero la capacità di dominare la ricchezza che avevano, in una parola degenerarono. A chi avesse avuto occhi per vedere sarebbero così parsi miseri uomini, perché avevano tralasciato il massimo bene, mentre viceversa a coloro che non sanno strutturalmente discernere la vita autentica, quella che mira alla felicità, proprio allora sembrarono più di ogni altro felici e radiosi, pieni com’erano di ingiusta avidità e di potenza.”

Atlanta, Sir Gerald Hargreaves, 1949

 

Allora meritarono il castigo di Zeus: Atlantide ed essi furono sommersi dalle acque, e da allora si può soltanto ripensare a quella perfezione divina di uomini indifferenti ai loro caratteri umani, capaci di non lasciarsi sedurre dalla potenza effimera e dalla grandezza quantitativa.

Nel mondo attuale si fa un gran parlare di adattare i mezzi al fine, ma quale sia quest’ultimo nessuno indica, forse perché non è concepibile un fine diverso da quello platonico, dal quale gli strumenti moderni allontanano per la loro stessa forma e dunque destinazione.

I sapienti antichi avevano sempre ben piantato nella mente il ricordo di quei reggitori puniti da Zeus, condannati a essere uomini umani, da divini che erano; era per loro limpido che ogni tentativo di trasportare in una società umanamente umana le conoscenze che potevano essere salutari nell’Atlantide, dovesse circondarsi di innumerevoli cautele. L’impulso a disseminare fra gli uomini umani le nozioni ottenute grazie al puro, divino disinteresse della scienza teorica è chiamato, nelle varie tradizioni occidentali – quella greco-pagana e quella ebraico-cristiana -, prometeico o luciferico, ed è tragico anche perché, mosso da intenzioni assai amabili, resta tuttavia travolto da una legge che si suole chiamare conseguenza della caduta dell’Atlantide o colpa originale; essa consiste nell’illusione di poter determinare da soli, al di fuori d’una tradizione, il bene ed il male, di poter trattare i fini come mezzi.

Perciò con divina saggezza venivano nascoste le conoscenze che nell’era moderna ci si è illusi di scoprire e ci si è inorgogliti di applicare senza calcolarne gli effetti remoti, con infantile entusiasmo e avidità.

Agli uomini più assennati non dovrebbe oggi essere ignoto che molte delle nozioni fondamentali sulle quali si erge la scienza moderna erano conosciute e tenute discretamente velate in antico.

Infatti era preveduta dai saggi antichi la natura disastrosa di tale amabile ma tragica intenzione, quella di uno sviluppo della umana istituzione basato sulle specialità separate dal tronco del sapere comune e unificato; vi è qui quella “confusione delle lingue” di cui parla Guénon e che riflette un più generale smarrimento delle conoscenze e dei punti di riferimento tradizionali. Infatti, oltre al mito di Atlantide vale per noi Occidentali il racconto della Torre di Babele nella Genesi (11,1-9):

Allora tutta la terra aveva un medesimo linguaggio e usava le stesse
parole. Ora, avvenne che, emigrando dall’Oriente, trovarono una pianura nella
regione del Sennaar e vi abitarono. E dissero gli uni agli altri: ” Su,
fabbrichiamo dei mattoni e cuociamoli al fuoco.”
E si servirono di
mattoni invece che di pietre, e di bitume in luogo di calce. E dissero: ”
Orsù, edifichiamoci una città e una torre la cui cima tocchi il cielo.
Facciamoci così un segno d’unione, un nome, altrimenti saremo dispersi sulla
faccia della terra”
“.

Il crollo della Torre di Babele, C. Anthoniszoon, 1547

Nel De vulgari eloquentia (I, 7, 8) Dante prevede lo stato attuale, soffermandosi sul mito della torre di Babele:

Certo quasi tutto il genere umano si era unito a quell’impresa iniqua: v’era chi comandava, chi architettava; chi erigeva muri, chi con livelle li faceva diritti, chi con cazzuole li bitumava; chi era intento a spaccar rupi e chi per terra e chi per mare a trasportarle; e gruppi diversi a diversi altri lavori s’affaticavano, quando da sì grande confusione furon dal cielo percossi che, mentre tutti con una sola e medesima lingua eran ministri alla costruzione, dalla costruzione, per molte lingue tra loro straniati, cessavano, e per una medesima scambievole intesa non più si trovavan concordi. Infatti solo a quelli che si accordavano in un’unica operazione rimase una lingua medesima: una, per esempio, a tutti gli architetti, una a quanti rivoltavan massi, una a quanti li preparavano; e così avvenne dei singoli lavoratori. E quante erano le varietà di lavoro tendenti alla costruzione, con altrettanti linguaggi si disgiunse allora il genere umano; e quanto più eccellente era l’artificio di ciascuno, tanto più rozzamente e barbaramente ora era il loro parlare. Ma coloro a cui rimase l’idioma sacro, né stavan presenti né approvavano quel loro esercizio, anzi profondamente esecrandolo, irridevano la stoltezza di quelli che vi attendevano.

Ma questi furono una minima parte di quelli quanto al numero ” Per inciso, secondo una tradizione massonica, fu questa minoranza a diffondere i corretti principi architettonici in Egitto, mantenendoli sacri e segreti.

La grande Torre di Babele, Pieter Bruegel, 1563

Comunque, parlando d’un mitico passato Dante dipinse anche il nostro presente; ma ben scarsi sono coloro che, grazie a lui, tengano fede ad un idioma sacro.

Del pari, a titolo d’esempio, Roberto Valturio, amico e consigliere di Sigismondo Malatesta, in un famoso passo del De Re Militari (XII,13), parlando del Tempio malatestiano di Rimini, con tatto allude ai “simboli tratti dai più occulti penetrali della filosofia e altrettanto atti ad attrarre fortemente i dotti quanto a permanere nascosti al volgo”. Ad esempio,in Plutarco, Cicerone e Macrobio i cui testi ispirano l’iconografia simbolica della Cappella dei Pianeti le premesse del pensiero pitagorico e platonico conducevano già i dotti di allora a concludere che la terra si muovesse attorno al sole e questo non doveva trapelare anche nel mondo profano, non si era evidentemente ravvisata alcuna utilità a scompaginare le menti più difficili a plasmarsi, con una divulgazione che avrebbe tolto prestigio alla metafora dei cieli narranti la gloria divina. Tuttavia per dirozzare l’ingenuo volgo era pur utile che esso cominciasse con l’affidarsi materialmente a tali visioni scolpite simbolicamente sulla pietra, nella speranza che col tempo taluno emergesse in grado di penetrare il rapporto tra la figurazione zodiacale e l’arduo maturare dello spirito contemplativo fuor dalla babele dei desideri ed interessi umani.

Non è possibile nessuna conoscenza senza una gerarchia di nozioni, onde dalle più facili si passi alle più ardue, e questo ordinamento si riflette con una certa imprecisione nella diversità morale e pertanto intellettuale che divide gli uomini l’uno dall’altro, imponendo pazienza e commiserazione ai superiori, umiltà e riverenza agl’inferiori La modernademagogia del livellamento e della società della comunicazione è intrinseca alle matematiche antipitagoriche. Mediante la divulgazione si scardina non già la gerarchia fra le nozioni, che è inevitabile, ma bensì la possibilità dell’educazione, morale oltre che pratica, dando agl’inferiori l’illusione di poter conoscere le verità fondamentali senza tirocinio, costringendo i superiori a gettare in pasto a esseri non qualificati concetti che un’errata interpretazione può rendere pericolosi (così gl’inferiori pregiudizialmente credono che le conoscenze siano approvazioni o disapprovazioni pratiche, che ogni concetto debba tradursi in un programma politico, in un comando o un’esortazione; schiacciati dai metalli di cui noi all’iniziazione ci disfiamo, essi, privi della libertà di ricerca, sono, in poche parole, abituati a ricevere ordini).

Nel mondo antico la distinzione fra il volgo ed i dotti era ovvia, essa è impossibile oggi, quasi nessuno concepisce ormai una dottrina se non ridotta a specialità, tolta perciò ad un ordine metafisico, uno ed unico.

La distinzione fra volgo e aristocrazia spirituale, tra profani e iniziati non è materiale e giuridica, ma tuttavia è intrinseca ad ogni ordine virtuosamente metafisico, in virtù del quale da un lato si evita di somigliare agli uomini, dall’altro si è assidui a ricercare e recuperare quel tempo sacro di Atlantide nel quale, come ancora narra Platone nel Crizia:

pronunciata la preghiera per sé e la propria stirpe, ci si occupava dell’agape e degli altri adempimenti del rito. Al calar delle tenebre, quando il fuoco dei sacrifici si era raffreddato, tutti indossavano vesti azzurre, le più belle che avevano e si sedevano a terra intorno alle ceneri del loro sacrificio sacramentale. Allora, nella notte, dopo avere estinto tutte le luci intorno al santuario, giudicavano e subivano il giudizio… Resa la giustizia, il giorno dopo, incidevano la sentenza su una tavola d’oro che consacravano in ricordo del giudizio, come le loro vesti(Crizia, 120 BC).

Il Tempio di Poseidon ad Atlantide, Sir Gerald Hargreaves, 1949

Oggi è stato impiantato in tutti il riflesso condizionato per cui ci si domanda, dinanzi ad ogni problema, se esso abbia un aspetto sociale, cioè comunicativo e perciò divulgativo, se esso sia aperto ed accessibile ad un ingente numero di esseri generici, ovvero se non sia “condannabile” in quanto riserbato a pochi e solerti, se non sia ” d’élite “, e vengono in malafede sovente calunniati i giusti ed i dotti come personaggi sinistri, oscuri, quand’anche non malavitosi. Tale riflesso condizionato che antepone continuamente una fantastica, e perciò apparentemente graziosa, carità pedagogica della conoscenza o della bellezza è una maschera indossata dalla nuda e immonda estasi dell’invidia e del consueto strumento del rogo.

Quanto alla divulgazione: non ha senso offrire risposte non precedute dalle necessarie domande, come uno sparger semi sulle nude rocce, come un gettar perle ai porci; l’insegnamento antico, al contrario, mirava a suscitar domande e a lasciar intravedere, dopo che il discepolo si fosse tormentato errando adeguatamente, le risposte, che erano forme la cui materia era la fatica della loro nascita, quali il duro dirozzamento della pietra fino al suo stato cubico.

In antico l’uomo non era necessariamente alla mercé del fardello della congerie d’oro e d’altre ricchezze, dei metalli, i quali non costituivano il principio d’ogni rapporto. Quasi nessun tratto della nostra vita sociale scampa al peso di questo fardello metallico. Già l’abitudine di imputare e riferire al sistema sociale ogni fenomeno vieta un rapporto pieno e schietto con la nostra stessa Istituzione, impedisce che viga l’impegno verso la verità: se anch’Essa, l’Istituzione, è un mero prodotto della società, la si tratterà come un divenire da incanalare, come ingannata di necessità dalle effimere contingenze, poiché già la sua convinzione di essere un ente, cioè un essere incardinato in certi principi e perciò in qualche misura autonomo rispetto alle condizioni sociali in cui vive e diviene, sembra ai moderni un’illusione, ma, al contrario, è il tracotante, fuor di misura, illuso di farsi un segno d’unione ed un nome, – non con la materia tradizionale, pietra e calce, bensì con i nuovi ritrovati della tecnica, mattoni cotti e bitume-, che è una vittima designata della punizione divina, ancora illustrata in modo simbolicamente preciso dalla Torre, XVI Arcano dei Tarocchi, che rappresenta il principio determinativo della tendenza alla materializzazione e alla punizione che ne consegue.

La Torre nei Tarocchi di Wirth

La Torre di Babele è dunque il simbolo di tale confusione.
Il termine stesso Babele deriva dalla radice semitica bbl che vuol dire confondere, mentre il termine semitico che designa la torre è migdal, che richiama nell’etimo la materialità dell’oggetto, collegato com’è alla radice gdl, che significa crescere, ingrandirsi. Il presuntuoso vuole innalzarsi smisuratamente, ma gli è impossibile superare la condizione umana ed anzi ne accresce la sua materialità. La mancanza di equilibrio e di misura provoca confusione sul piano terreno e sacro.

I miti della Torre di Babele e della scomparsa di Atlantide mostrano come l’orgoglio, la condiscendenza alla nostra natura troppo umana e l’idolatria dei metalli e dei nuovi artifizi, la mancanza di misura, distruggano le società divine, attirando su di esse rovina e discordia.

La torre di Babele "Nulla è fatto con la discordia", 1702

Una società umana, e perciò qualsiasi istituzione terrena, cioè un potere manifestato, una forza in atto, senza anima e senza amore, è votata alla dispersione; l’unione può derivare solo da un principio spirituale ed accostarsi ad un amore.

Se si vuole misurare la saldezza equilibrata di qualsiasi potentato in manifestazione, basta infatti osservare se attorno al suo trono fioriscano il pensiero e le arti e saggiare se l’elemento divino prevalga; come ben ci è noto, segno di reggimento compatto e durevole della forza è la simultaneità delle tre luci. La saggia Atena illumini Eracle, chiamato, forte e lucido sopra le passioni, a vagare e faticare in un mondo ostile, affiancati dalla splendente Afrodite, equilibrio nell’azione feconda di vita. Accanto alla forza non manchino mai sopra la sapienza e a lato la bellezza.

Moreno Neri

Il giardino delle tre luci, Peter Proksch, 1975

 


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