Nessuno può dire di non avere mai avuto, per un attimo o per tutta la vita, paura della morte.
Ma la nostra generazione e, più ancora, quella futura, alla quale la scienza ha regalato la possibilità di un’esistenza più lunga e più sana, si trova a dover affrontare la paura non – vita o della non – morte.
Le capacità di intervento di una medicina moderna che ci cura sempre di più, ma non per questo ci guarisce di più, sono cresciute fino a raggiungere la possibilità di mantenerci tecnologicamente in una vita artificiale.
Uno stato intermedio tra la vita e la morte, a volte anche doloroso, che ci può inquietare più della morte stessa e che ci pone di fronte a dilemmi sconosciuti alla storia ed al pensiero.
La morte può essere considerata come parte della vita, come fase necessaria al grande disegno, non solo biologico,del quale tutto il mondo della manifestazione è parte – sopravvivere, riprodursi, scomparire per lasciare posto alle nuove generazioni, oppure credere che ci sia anche un altro disegno e un’altra vita, per noi, dopo la morte.
Ebbene, sulla base di questi presupposti, cioè se la morte sia o meno il termine naturale della vita umana, dinnanzi alla nuova possibilità di allontanare questo confine, chi decide dove porre il limite ed a quali condizioni farlo? La tecnologia? I medici?
In realtà, personalmente, penso che nessuno debba decidere per noi, poiché ognuno ha il diritto di autodeterminarsi e di esprimere cosa vuol fare della propria esistenza, nel caso in cui si trovasse in condizioni che lo privano della sua identità e dignità.
Ognuno dovrebbe essere libero di scegliere, anche se la sua scelta sarà di non esercitare il diritto in alcun modo.
Chi ha fede sceglierà di affidarsi a Dio e, vedendo negli strumenti medici le sue mani, deciderà di non rifiutare in nessun caso, il trattamento che lo mantenga in vita, considerata dono e proprietà di Dio.
Chi non ha fede potrà decidere di affidarsi comunque ai poteri della scienza medica ed accettare ogni terapia indipendentemente dalle conseguenze sul suo corpo per non perdere anche la minima, anche causale,possibilità di sopravvivenza; oppure potrà scegliere di stabilire i limiti oltre i quali preferisce non ricevere più cure, inutilmente.
Il principio dell’autodeterminazione è l’unico che garantisce il rispetto della globalità della persona, del corpo, della mente e della loro armonia, anche quando questa armonia si spezza e ci si trova nella condizione di massima debolezza, come avviene durante una malattia.
E’ in gioco, qui, la dignità della morte; è in discussione una sorta di valutazione che deve avere i suoi punti di riferimento nei principi di dignità, uguaglianza, autonomia, senza cedere alla tentazione di riferirsi soltanto ad una regione di vita ridotta alla sua misura biologica.
Non è possibile, comunque, affrontare i delicati problemi giuridici sollevati dalle discussioni sulle disposizioni anticipare, senza un richiamo alle diverse posizioni metagiuriche che riguardano interrogativi fondamentali come il senso della vita e morte, il concetto di dignità dell’uomo ed il vero senso della libertà.
La maggior difficoltà, oggi, deriva dal fatto che, nella società coesistono modelli etici di riferimento diversi.
Da qui la necessità di costruire un sistema che riesca a conciliare le diverse linee di pensiero, per evitare drammatici contrasti per le coscienze individuali.
Un’etica può dirsi religiosa quando faccia riferimento ad un qualche senso del divino; tra queste, quella cristiana ed al suo interno quella cattolica fa riferimento ad un Dio personale e morale la cui identità è quella dell’amore gratuito.
La differenza fra i due orientamenti sta nel fondamento dell’agire morale ; per il cattolico l’agire morale e la libertà trovano il proprio fondamento in Dio e la libertà reale richiede, come sua condizione, la possibilità di una libertà originaria.
Per il laico, che non pone intermediazione alcuna tra sé e Dio, il riferimento è la legge morale e la libertà è il poter compiere o meno certi atti secondo la determinazione della propria volontà.
E’ il diritto di fare tutto ciò che non è contrario alla legge morale ed alla libertà altrui.
E’, quindi, necessario trovare un punto d’incontro tra le varie linee di pensiero che dovrà passare attraverso il primato della libertà e del mantenimento del significato della realtà in un connubio che permetta al soggetto, di relazionarsi all’unisono, con essa (microcosmo e macrocosmo – la coscienza del mondo).
In un particolare momento della mia vita ho lasciato documentata la mia volontà di ricorrere al testamento biologico, qualora il mio stato di vita sarebbe stato solo a livello vegetativo; il farlo mi è venuto spontaneo, consapevole che l’approdo naturale della mia coscienza sarebbe stato in quella del mondo, perché, appunto, la vita, ha diverse fasi; non si spiegherebbero, altrimenti, le catene d’unione, per i massoni e le preghiere per chi vive nella fede.
Il mio essere uomo mi porta a percorrere un metodo di ricerca e di evoluzione interiore, pregnante di sacralità e di religiosità che può essere sintetizzato con questa frase non mia: “quando Dio è in noi è coscienza, quando è fuori di noi è chiesa.”
Amo, quindi, la vita in ogni sua sfaccettatura, consapevole che il mio essere non è avulso dall’intero mondo della manifestazione e che la morte altro non è che l’accoglimento dell’Io nell’Infinito.
L’essere umano, morendo non interrompe la propria vita, ma si avvia ad un’altra vita di perfezione, salendo ancora uno scalino della scala di Giacobbe, con un Angelo che gli va incontro.
Ecco perché è fondamentale vivere nel pieno della luce delle nostre coscienze per essere sempre più consapevoli che la nostra volontà, in certi particolari momenti, rispecchi il nostro e più intimo sentimento religioso.
Il Ser. Presidente del Rito Simbolico Italiano
Fr. Maestro Architetto Giovanni Cecconi