Uno dei compiti che si è sempre posto l’umanità è il contatto col divino, la sua ricerca e comprensione, la risposta alle domande ontologiche “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”.
Dalla “Scuola di Atene”, il famoso dipinto che mette in contrapposizione la ricerca terrena, fisica, con quella ultramondana, spirituale, in poi ci si è chiesti dove guardare, accenno a quella che è la mia risposta, dentro di noi!
Anche il nostro Tempio senza tetto e ornato d’azzurro ci invita a guardare in alto, al cielo stellato, essendo ormai in grado di lavorare la materia, la pietra grezza, e utilizzare gli strumenti del mestiere.
Come ben sappiamo uno dei nostri principali punti di riferimento è Pitagora e la sua scuola Italica. La formazione di Pitagora è stata quanto mai ampia ed eclettica, da Ermodamante apprese i poemi del vecchio Omero, da Ferecide di Siro fu iniziato alle tradizioni dell’Orfismo, da Anassimandro di Mileto la matematica, che perfezionò con Talete.
L’aspetto che vorrei qui sottolineare è, però, l’essere Pitagora stato iniziato a molti Misteri del suo periodo, le Telete, e l’avere viaggiato in cerca delle risposte ontologiche citate all’inizio, fu a Delo, Creta, Siria ed in Egitto dove trascorse oltre vent’anni, in quest’ottica di apertura all’altro, e a ciò che sembra a noi lontano, le riflessioni che oggi spero di stimolare prenderanno spunto dalla danza mistica dei dervisci turner, il samà.
Il fine di tale rito è il fanà l’estinzione dell’io, rappresentato dal cappello che indossano e che simboleggia la pietra tombale del loro Io, e quindi l’estasi mistica, i tre movimenti che svolgono rappresentano il cosmo e l’unione tra Dio e l’uomo, esiste poi un quarto movimento, che rappresenta l’accettazione della materia.
Tale invito lo possiamo fare nostro, dopo esserci distaccati dalla materia grezza, dal mondo profano, dobbiamo tornarvi ed accettarlo, uscendo dal Tempio dobbiamo essere in grado di essere equilibrati e di esempio per gli altri. Tale compito veniva inoltre perseguito dai Pitagorici con la propaganda “exoterica” e la formazione di una sorta di “terz’ordine” inserito nella società, come la nostra abitudine di organizzare convegni ed incontri; anche i sufi prevedono una parte exoterica ed una esoterica.
Un aspetto fondamentale e che durante la loro danza sacra i dervisci hanno una mano verso l’alto, per ricevere i doni di Allah, ed una verso il basso per darli agli uomini. Una similitudine la possiamo incontrare nei Vedanta, secondo i quali la mente non ha intelligenza, ma la riceve dall’Atman (il principio divino nell’uomo). Anche noi ritengo dobbiamo donare agli altri i doni che riceviamo, ovviamente a ciascuno secondo il suo grado di crescita o conoscenza.
È forse utile una breve digressione sui dervisci turner, essi sono appartenenti ad un ordine iniziatico islamico, diviso in tre gradi: apprendista(murid), compagno(arif) maestro(shaykh), con un Maestro Venerabile, due Luci ed un copritore esterno, durante le riunione viene letta una tavola (come in Loggia e presso i pitagorici).
Tale organizzazione la si deve a Dhu alNun al Misri (IX secolo) un sufi che ornò il tempio con l’altare al centro, con su il Corano con sopra squadra e compasso e ai lati le colonne Yakim e Boaz.
L’iniziazione del neofita è simile a quella massonica, vi è il ritiro in un gabinetto di meditazione, la ricezione della parola segreta di rito e dei passi e le insegne del lavoro; in alcune confraternite come la Bektashi l’iniziando è condotto con una corda al collo e cinto di un grembiule cambiato ad ogni passaggio di grado.
Le confraternite sufi sono di tipo esoterico ed hanno come scopo il percorrere una via verso il principio divino; il samà ha assunto la forma attuale per merito di Jalal AlDin Rumi, un mistico del XIII secolo, propugnatore del motto “libertà eguaglianza fratellanza”, predicato per primo nel IX secolo da alHallaj e pubblicato un secolo dopo dai Fratelli della Purezza nella loro Enciclopedia Universale, era conoscitore e amante dei simboli pitagorici relativi a musica e sfere celesti che venivano coniugati col samà, pervaso anche di un simbolismo cosmico (i pianeti) e che ricorda il movimento degli atomi.
Il principale compito dei sufi era quello di custodire le discipline spirituali e la loro trasmissione nel tempo, sono state affiliate al Sufismo anche organizzazioni iniziatiche secondarie che andavano dagli ordini cavallereschi alle corporazioni (chiare le assonanze con la Massoneria), ma il compito principale è sempre stato quello educativo, come anche il Nostro Rito Simbolico che alle parate cavalleresche preferisce i convegni e congressi. La maggior parte dei testi esoterici egiziani, greci, persiani, tra cui il Poimandro attribuito a Ermete Trismegisto sono, ad esempio, arrivati a noi dall’arabo grazie a pensatori sufi.
Il termine sufi è la traduzione di Tassawuf, il cui significato è legato alle consonanti in esso contenute, T S W F:
Tawba, pentimento, il primo passo nella via sufi, Come espresso nella mistica sufi ha due direzioni, una esterna legata ai cosiddetti peccati compiuti in “parole opere e omissioni”, ed una interna consistente nel purificare il cuore dai desideri mondani dedicandosi solo al Divino. Un altro aspetto generale della danza sufi è l’allontanamento della tentazione e l’affermazione dell’Io rappresentato dal bianco del vestito, o dalla Luce, mentre il nero rappresenta l’ignoranza e l’essere profani.
Va ricordato che i primi Misteri a cui fu ammesso Pitagora, quelli di Zeus a Creta, legati alla Catartica, erano Riti di purificazione, una parte del rito prevedeva l’indossare una pelle di agnello nero che rappresentava la natura animale e le passioni incontrollate da cui liberarsi e ricevere la Luce abbandonando la pelle. Un altro aspetto fondamentale della purificazione pitagorica è il ritmo sacro della musica.
Safà: gioia e purezza, per alcuni il termine sufi deriva da qui, è lo stato del cuore che si è liberato dell’ansia per la sopravvivenza fisica, quindi cibo, bere, dormire, le privazioni fisiche sono inoltre propedeutiche a varie iniziazioni come la citata a Creta , o i Misteri Orfici, molto legati al Pitagorismo; tornando al dipinto citato si può cominciare a guardare in alto, o in loggia a Oriente potendo parlare direttamente. Utilizzando un linguaggio Pitagorico sperare di soggiornare nell’isola dei Beati.
Walaya: santità degli amanti di Allah; la perfezione, il terzo grado che come ben sappiamo rappresenta per i Maestri Architetti proprio la perfezione, senza ulteriori innalzamenti o scalate.
Fanà: estinzione dell’Io, Pitagora nei Versi Aurei allude in modo non equivoco alla possibilità di elevarsi nell’etere radioso e diventare per incorporazione un Dio.
Il nostro Rito prevede, credo, annullare il proprio egocentrismo e narcisismo, per essere in modo armonico una cosa sola, se si annulla l’Io di ognuno resta il Sé che è collettivo e universale, come nei Vedanta trascendendo il prakti resta il purusa , o più specificamente solo l’Atman il principio divino, che a differenza del purusa, che è impassibile, possiede la qualità della felicità.
Vorrei riflettere con voi su quanto sia difficile mettere da parte il proprio io, quanto esercizio e quanti sacrifici ci vogliano per potere compiere i movimenti della danza presentata. Bisogna allenarsi per anni, sia a livello fisico che psichico, il volteggiare tutti insieme ad occhi chiusi senza scontrarsi non è un mero esercizio ginnico ma un fidarsi che gli altri non ti faranno cadere sbagliando, e che tu non farai cadere gli altri sbagliando, ci si affida ai comando dello “semazen base”, il capo dei danzatori, una sorta di Maestro delle Cerimonie sotto lo sguardo del Maestro [ o Presidente del Collegio che sia] lo shaykh.
Descrivo brevemente la cerimonia . Il rito inizia con un nait (o naat, Naat âlSherìf, inno di lode al Profeta), o altra preghiera (come il nostro A.G.D.G.A.U.), la seconda fase simbolizza la creazione del mondo, mentre la terza fase rappresenta il soffio divino da cui tutte le creature traggono vita.
A questo punto comincia il samà vero e proprio entrano in fila il Maestro, il capo dei danzatori, e i danzatori, coperti da un mantello nero(chiaro il collegamento con la pelle di agnello nero), simbolo dell’ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta, come lenzuolo mortuario, la luce e il distacco dall’io.
A passi lenti, i dervisci percorrono in senso antiorario (così come si svolge la circumambulazione della Kasbah e la nostra squadratura del Tempio) tutto il perimetro per tre volte. Poi si fermano su un lato lungo e ha luogo, con un lieve inchino, lo scambio reciproco di saluti. Ciò simboleggia il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza.
A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo di feltro, cominciano a roteare su se stessi e, dopo aver allargato le braccia, sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala , la mano destra volta al cielo come detto per ricevere i doni di Dio, la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i presenti i doni ricevuti da Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un’ampia vorticosa immagine dell’Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
“Adora girando”, era uno dei precetti liturgici dei riti pitagorici, il Thronismos, ad un segnale rituale tutti si alzavano in piedi ed il Maestro apriva processionalmente il rito, che consisteva nell’adorare il Dio girando attorno alla sala col Maestro in testa.
La cerimonia dei sufi viene ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro “saluti”, interrotti ciascuno da un arresto della musica. Sul finire dell’ultimo “saluto”, il Maestro stesso, “polo celeste”, compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.
Il primo “saluto” simboleggia la nascita dell’essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento in una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell’esistenza di Dio (o la nascita dopo l’iniziazione). Il secondo saluto simbolizza il raggiungimento d’una consapevolezza superiore, in cui l’essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione. Nel terzo saluto l’essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui (fanâ), ed è l’estasi ed il superamento d’ogni transitorietà fenomenica. Il quarto “saluto” simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l’accettazione della materia dopo l’ebbrezza della luce divina. Il viaggio mistico è così finito e il sufi, «morto prima di morire», illustrando i versetti 27-30 della 89ª sura del Corano, ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica. Morte e rinascita sono alla base dei Misteri Egizi, con il mito di Iside e Osiride, e che Pitagora, come accennato iniziato a tali riti (a Menfi ed Heliopolis), ha rappresentato, col chicco di grano che deve morire e rinascere.
Il sufi, a qualsiasi Confraternita appartenga, compie un cammino evolutivo declinato in sette tappe; ognuna rappresentata da un profeta. Per l’elaborazione d’ogni tappa abbiamo sette simboli, la cui penetrazione aiuta il cammino. Essi sono: suono, luce, numero(da sottolineare che la scienza dei numeri sufi, l’abjad deriva direttamente dagli insegnamenti pitagorici, come la sezione aurea utilizzata dagli architetti sufi), lettera, parola, simbolo, ritmo e Armonia. Nel samà, in cui si uniscono musica, canto, poesia, pensiero, movimento, luce e colore, troviamo così espressi e presenti tutti e sette questi simboli, in una completezza che trascende il solo pensiero-azione della preghiera musulmana, e rende così altamente suggestivo e globale questa cerimonia.
M.G (Collegio Zancle)