Entrando nel Tempio racchiuso ancora in penombra, i miei occhi sono stati spesso colpiti dallo stridente contrasto offerto dal pavimento a scacchi: è incredibile, pensavo, come il bianco e il nero, così accostati l’uno all’altro, riescano a turbare sia pure momentaneamente l’atmosfera armoniosa che si crea con l’ingresso rituale in Loggia.
Mi sono allora chiesto il perché di questa sensazione fastidiosa e credo di averne trovato la risposta nel significato immediatamente percepibile del simbolo in questione: la dualità. Bianco e nero, maschio e femmina, bene e male e così via: non ci vuol molto per comprendere come dualità evochi contrasto, antitesi e, in ultima analisi, negatività. Prova ne sia che nella stessa lingua comune la parola “doppiezza” ha un connotato morale negativo, così come in greco, per indicare “due” e “male”, si adoperavano parole della medesima radice, e cioè, rispettivamente, dyo e dys. Da quest’ultimo vocabolo deriva anzi in italiano il prefisso dis, che ha pure significato negativo, come ad esempio constatiamo per le parole “distonia”, “disaccordo” etc… Presso i primitivi questi concetti erano ancor più stressati. Per i pellerossa, ad esempio, l’espressione “avere la lingua biforcuta” significava mentire, come del resto nella nostra lingua l’aggettivo “equivoco” indica sia una situazione ambivalente ma pure, per traslato, una persona dal comportamento ambiguo e, di conseguenza, moralmente inaccettabile.
Ma ritorniamo al nostro simbolo. Non è possibile, pensavo, che un’armonia così faticosamente costruita sia turbata, ancorché lievemente, da questo evidente contrasto, e mi sono allora domandato se quel simbolo non voglia dire ancora qualche cosa d’altro, se dietro le sue pieghe non si nasconda un muto invito a superare l’apparenza, cosa del resto non infrequente fra i seguaci della Tradizione che lanciano messaggi in modo criptico, affinché gli uomini che li raccolgono siano costretti ad uno sforzo di riflessione che consente loro di passare dalla comune condizione di chiamati a quella ben più difficile di eletti.
Considerando allora che le facce della medaglia sono alla fin fine due aspetti dello stesso elemento, la medaglia medesima, che le sintetizza in un’unica realtà, occorre scoprire la terza incognita che supera la dualità operando una reductio ad unitatem. Questo terzo elemento è lì, nascosto fra le due piastrelle: è la linea ideale posta nel mezzo che le separa l’una dall’altra.
Cosa rappresenta questo solco? A me sembra che simboleggi l’uomo. Incidere infatti significa separare, individualizzare. Romolo compie questa operazione per dimostrare a tutti che la terra al di qua del solco era sua, e l’incisione, o taglio del cordone ombelicale, segna il momento da cui il bambino, separato dalla madre, vive di vita propria. L’individuo è dunque un essere finito, autonomo e, soprattutto, capace di pensare con la propria testa. È peraltro significativo che questo solco sia posto fra le due piastrelle, fra il bianco e il nero. Questi due colori indicano palesemente le due polarità che muovono il mondo, la luce e le tenebre, yin e yang, cielo e terra; la circostanza che l’uomo stia nel mezzo ne esalta la centralità e ne accentua la capacità di cogliere una visione globale dell’insieme.
L’intuizione dell’uomo come essere posto sul confine di due mondi, il terreno e il divino, è molto antica. Nella dottrina taoista egli è indicato come Figlio del Cielo e della Terra; in Occidente Dante lo raffigura all’orizzonte qui est medium duorum emisperiorum e poiché “tutto ciò che sta in mezzo conosce la natura degli estremi, è necessità che l’uomo partecipi di entrambi” (1). Alcuni secoli dopo il massone e filosofo illuminista Johann Gottfried Herder ci farà ancora notare come la contemporanea partecipazione di due nature, fisica e metafisica, si evinca anche dalla traduzione della parola “uomo” nelle lingue antiche. Così se i latini dicevano homo accentuando l’influsso della terra, humus, i greci davano invece maggior risalto all’aspetto metafisico, perché anthropos significa “colui che si volge verso l’alto” (2).
La Sacra Scrittura insiste continuamente sul fatto che l’uomo deve staccarsi da se stesso.
Solo nella misura in cui ti stacchi da te stesso, sei padrone di te stesso.
Nella misura in cui sei padrone di te, ti realizzi.
Nella misura in cui ti realizzi, realizzi Dio e tutto ciò che ha creato.
Stabilito dunque ‘dove andiamo’, occorre far mente locale sul ‘come vi andremo’, essendo scontato che la scelta dei mezzi è di pari importanza dell’individuazione del fine. A questa ultima domanda risponde Mosè Maimonide, rabbino ebreo vissuto all’inizio del XII secolo.
La via giusta è la via mediana, che passa tra i due estremi opposti, propri di ciascuna disposizione dell’anima.
Essa si mantiene ad eguale distanza da ciascuno di tali estremi, non avvicinandosi a nessuno dei due (3).
La medietà non è però ignavia, né indifferenza, né tanto meno abulia; è invece dottrina dell’armonia etica, volta a far acquisire quelle virtù morali che vengono attribuite alla divinità; in questo senso la via mediana è la “via del Signore”. Maimonide riprende il tema, caro ai filosofi greci, secondo il quale la virtù etica è contemperamento delle passioni da cui si genera l’equilibrio spirituale. Aristotele aveva inoltre evidenziato come la determinazione della medietà avvenga con il concorso della ragione, che illumina all’uomo i fini che è destinato a realizzare: la medietà è virtù dianoetica, implica cioè l’uso della ragione. Ciò vale, mutatis mutandis, pure per la politica, giacché se l’etica è dottrina della moralità individuale, la politica è dottrina della moralità sociale.
Lo squilibrio è per contro considerato un’autentica malattia dello spirito, anche quando i suoi effetti sembrano riferirsi al corpo, perché il perfezionamento del secondo precede necessariamente quello del primo.
La Torà, nel suo complesso, si propone due cose: il perfezionamento dell’anima ed il perfezionamento del corpo… Sappi che di questi due fini uno è certamente più elevato, quello, cioè, del perfezionamento dell’anima o dell’acquisizione di idee veritiere. Tuttavia il secondo lo precede nella natura e nel tempo… Infatti solo dopo aver raggiunto questo secondo fine, si può pervenire al primo (4).
A questo punto, forse inconsapevolmente, Maimonide mette in luce la profonda differenza esistente tra il mistico e l’iniziato: mentre il primo anela a dissolversi nella divinità e non si cura punto dei problemi di questo mondo – l’estasi è letteralmente fuoriuscita da sé – il secondo è invece pronto ad agire, pur facendo sempre leva sulla ragione, e sa di non potere cominciare l’ascesi se non esaurisce prima le proprie possibilità umane. Il massone che aspira alla maestria non può ignorare che la ricerca del Vero sarebbe vano esercizio accademico se non fosse costantemente accompagnata dalla pratica del Giusto, che le due virtù devono stare in perenne equilibrio fra loro, che, infine, l’equilibrio personale e interiore, se raggiunto, è il riflesso dell’equilibrio generale ed esteriore che ci fa intuire l’esistenza di un Principio universale dal quale tutto proviene ed è retto. Rammento che il vocabolo greco kosmos, da cui l’italiano ‘cosmo’, aveva invece quale primo significato quello di ‘ordine’. Regnum caelorum violenza pate, il regno di Dio si conquista anche con la forza, se necessario, e nei summenzionati termini il detto evangelico (5) è ripreso da Dante, che lo fa echeggiare, significativamente, nel cielo di Giove, dimora delle anime dei giusti, di coloro i quali non hanno esitato ad impugnare le armi per far trionfare l’ideale della Giustizia, considerata nell’Antico Testamento l’attributo per eccellenza dell’Essere Supremo (6).
Mi sia concessa, infine, un’ultima riflessione. Riguarda direttamente la Massoneria, la sua natura e il suo fine, e scaturisce dalla considerazione che proprio questa Istituzione ha voluto ornare i suoi templi con questo simbolo. Se riteniamo che l’equilibrio sia valore universale, ne consegue che la Massoneria non è né può essere, come peraltro già osservato dal Fr. Lennhoff, “il santuario dei cavalieri del Graal” o il convento degli stiliti. È invece una comunità di uomini per gli uomini, con tutti i pregi e i difetti che la condizione umana comporta. Non deve pertanto stupire il fatto che un massone sbagli, né trarre da ciò conclusioni affrettate. Un antico adagio ci rammenta che chi mangia pane fa molliche, e queste vanno raccolte senza drammi, alieni da ogni forma di puerile vittimismo o, peggio ancora, da tentazioni di ritiri catacombali, tanto anacronistici quanto dannosi. Se è vero, come ha detto Gesù, che gli iniziati non sono del mondo, pur tuttavia essi sono e restano nel mondo, e questo ha bisogno, oggi più che mai, di quelle doti di equilibrio che sono – o perlomeno dovrebbero essere – prerogativa di tutti gli uomini e in special modo di noi massoni. In questo mondo dobbiamo dunque calarci, senza trionfalismi ma, pure, senza ingiustificate riluttanze o paure, perché non è la possibile accidentale caduta ciò che dobbiamo più temere, bensì l’incapacità di risollevarci e riprendere il nostro lungo, doloroso, ma pur sempre fecondo cammino verso la Luce.
Giovanni Lombardo
- Monarchia III, 15
- J. G. Herder, Sul concetto e la parola di “umanità”, in che cos’è’ l’illuminismo? a cura di N. Merker, Editori Riuniti 1987, pag.122. Osservo però che l’etimologia proposta dall’illustre Fratello è inesatta, perché “volgere”, in greco, si traduce trepo, con tau, non con theta. L’espressione è però egualmente felice.
- G.Laras, Il pensiero filosofico di Mosè Maimonide, Carucci Editore Roma 1985, pag.141
- Ibidem pag 179
- Matteo XI, 12
- Paradiso XX, 94