Riflessioni sul significato della perfezione

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Coloro che hanno posto la Perfezione, un modello al di fuori di loro, e sono i più, affermerebbero che solo Dio è l’Essere Perfettissimo; e riterrebbero, credo , ingiustificato parlare di “perfezione” per noi “poveri mortali”. Vi è un Dio fuori dell’Uomo e solo Lui può consentirci di pensare alla “perfezione”.

Ho imparato invece che l’Uomo deve pensare alla perfezione e che – anzi, come dirò – la tendenza alla perfezione è lo scopo stesso del nostro esistere. La precedente impostazione, oltre a non poter essere condivisa per il fondamento da cui si muove, non tiene comunque conto del significato del termine “perfezione”

Soffermandosi sul significato etimologico del termine, si deve ricordare che deriva dal verbo perficere, perficio; da cui la perfezione; perfectio, perfectionis … e il suo significato è : “portare a termine”, “condurre a compimento”, e quindi compiutezza, completezza.

Ovidio ha usato tale verbo con riferimento al greco energeo, nel senso molto concreto del portare a termine l’atto sessuale, ossia del godere. Quindi alla perfezione non può essere aggiunto niente non tanto in senso qualitativo e morale, ma in senso concreto: ciò che è perfetto è giunto al suo termine e dunque si è compiuto.

Occorre riflettere pertanto su cosa possa significare portare a termine la nostra esistenza, renderla completa e compiuta.

Nel concetto di portare a termine, vi è già una prospettiva temporale che impone anche una fine di qualcosa che ha avuto un inizio; il nostro percorso “esistenziale” si snoda tra la nascita e la morte (non voglio trattare qui del dove siamo prima e dopo tali eventi o il significato di essi) e il portare il nostro Essere a termine, devo significare il renderlo compiuto, completo e dunque “perfetto” in relazione, si badi, a questo delimitato spazio temporale.

Si lavora peraltro tra mezzogiorno e mezzanotte ed è questo il tempo che è concesso, e ciò che è importante è che alla fine tutto sia giusto e perfetto.

Dare un contenuto a questo significato del portare a compimento significa riferirsi alla nostra esperienza esistenziale: non avrebbe senso parlare di tale argomento prescindendo dalla propria soggettività e dal proprio sentire.

Cosa significa portare a compimento questa esistenza? Molti uomini risponderebbero che – data la limitatezza dell’Uomo – tutto ciò che si può fare è prendere “il meglio” di questa vita che ci è stata data. Cosa significhi questo “meglio”, come risulta evidente anche nella nostra società, è oggetto di opinione variabile e soggettiva che i pensatori greci hanno chiamato doxa.

Se rifletto sul significato che ha per me questo termine non so prescindere dalla situazione di di partenza del viaggio esistenziale, che deve essere esaminata con sguardo oggettivo, senza lasciarsi andare a giudizi fondati sulla sensitività o poco realistici.

Il nostro percorso esistenziale – quando tale percorso non venga troncato da eventi che lo riducono temporalmente o lo rendono drammatico – è comunque una strada colma di ostacoli. Ma gli ostacoli non sono sulla strada, sono la strada stessa; la strada è costituita dagli ostacoli e pertanto non ci resta che affrontarli, sapendo intimamente che l’ostacolo forse non potrà essere superato in via definitiva, ma potrà essere posto accanto a noi, in modo da poterlo osservare, capirlo e, in un certo senso, renderlo meno doloroso.

Sono vari gli ostacoli sulla via della “perfezione” imposti dalla nostra condizione di esistenza:

1. quello che accade spesso non lo vogliamo; quando tutto però va per il verso giusto, riusciamo a trovare un motivo di insoddisfazione; e più vogliamo che le cose vadano come vogliamo, più soffriamo. Questo accade sin dalla prima infanzia, e ci segue poi, tanto che una caratteristica della perfezione dovrebbe essere il diventare adulti, che significa il non desiderare cose (res) ossia non esserne dipendenti, e ancora il non dipendere dai comportamenti e dai giudizi degli altri.

2. Pertanto siamo nella sostanza soli; noi ci pensiamo sempre rispetto agli altri; la nostra mente ci suggerisce di porre la nostra esistenza in relazione all’esterno. I nostri pensieri sono quasi sempre giudizi di relazione con l’esterno; hanno spesso un altro o altri presenti. Chi ci osserva? Chi ci giudica? In realtà, non c’è nessuno che tiene la contabilità della nostra vita; i nostri errori, i desideri, i fallimenti, tutto è presente in primo luogo in noi.

3. Siamo vicini – più di quanto vogliamo pensare – alla morte. Corriamo verso di essa, pertanto dobbiamo comprendere che il passato e il futuro ci riguardano relativamente e che i nostri castelli sono sempre – a conti fatti – castelli di sabbia.

Tale partenza, è quindi un inizio che parte dal basso: da istinti (auto preservazione, sesso, senso del gregge, bisogno compulsivo di autoaffermazione in qualunque modo questa possa essere interpretata dal nostro stesso ego); da una sensività, colma di emozioni, sentimenti e desideri, che diventano paure, bisogni; da una mente che si aggrappa fortemente ad un groviglio di idee, immagini, giudizi e interessi da porre in relazione a qualunque evento o pensiero esterno; un fluire di sentimenti e di emozioni che come onde del mare ci devastano in un fluire di sentimenti e di emozioni e che non si fermano mai. Lo avvertiamo quando raggiungiamo un nostro c.d. sogno; spesso la felicità dura un attimo e non poi così reale pertanto; e subito dopo ci coglie come un senso di vuoto e di tristezza e il sogno diventa un altro.

Può intervenire la malattia o qualcosa di negativo ad una persona a noi cara.

Ricordo le parole oggettive, semplici e dirette del Leopardi

Ma la vita mortal, poi che la bella

giovinezza sparì, non si colora

d’altra luce giammai,né d’altra aurora.

Vedova è insino al fine; ed alla notte

che l’altre etadi oscura

segno poser gli Dei la sepoltura.

(da “ll tramonto della luna” che cito anche perché scritte da G. L., almeno così si racconta, poche ore prima del suo compimento terreno ).

Da questo piano orizzontale, da questa base di partenza, occorre staccarsi, elevarsi, per tendere alla compiutezza.

Il percorso sulla via della perfezione non può rimanere incollato a questa trama, alla rete di quei labirinti, poiché il destino dell’Uomo non è limitato a questo; e ciò può essere compreso anche tramite il dolore che pervade la nostra esistenza, la quale è segnata da un senso di sottrazione (è vedova infatti); ci sentiamo perciò fuori posto, cosa che non accade ad altri esseri che riescono più di noi a vivere naturalmente l’esistenza, attimo per attimo, compiendo e accettando il loro destino.

L’Uomo che aspira alla perfezione lascia queste catene per ritornare al mito platonico della caverna.

Riteniamo troppo spesso di essere in una “valle di lacrime” ( e ciò ritengono anche, ed anzi in particolare, coloro che ricercano “il meglio” della vita, ancorati ad essa); possiamo e dobbiamo invece sentirci i fruitori del meraviglioso dono della vita.

Se non ci riusciamo è solo perché ci identifichiamo in ciò che non siamo: poiché non siamo né sasso, né fiore; e non siamo neppure legittimi appartenenti al regno animale.

Occorre pensare ad un percorso in cui la nostra vita si rinnova e diventa autentica; solo quando ogni soggetto può essere compiutamente sé stesso c’è vita vera; ciò che è vero si presenta alla nostra esistenza per l’uomo Strumenti di lavoro del RSIche vuole essere. Non si può non citare qui un brano del “nostro” Arturo Reghini, laddove nel testo “Le parole sacre e di passo” – nell’ultima parte , analizzando le differenze fra l’iniziazione dei misteri greci e le attuali iniziazioni – scrive: “si tratta di opera di purificazione che – come la successiva pratica di estasi filosofica – occorre sia condotta con lo stesso spirito di impersonalità, con la stessa freddezza scientifica con cui si può procedere ad una lunga preparazione in un laboratorio di fisica. Si tratta di ottenere la propria indipendenza dall’istinto, dai pregiudizi, dai sentimenti; non di conformare sé stessi ad una determinata morale. Non si tratta di diventare l’uomo perfetto, ma di transumanare”. D’altra parte, si aggiunge, che la morale fa parte di pregiudizi, di una mentalità, di una razza o di un paese, e non si può essere schiavi di opinioni, per quanto rispettabili. E non si può neanche credere che il problema sia il corpo, la carne: se è vero che questa contraddistingue il nostro percorso, mortificarla non può essere una soluzione, dato che ci occorrono forze per superare gli ostacoli e avanzare nel nostro percorso.

Ricordando ciò che afferma il Poeta “Trasumanar significar per verba non si porìa”: espongo in merito alcune ulteriori riflessioni e considerazioni giova tornare a noi stessi, poiché la via della perfezione si trova sulla nostra strada Se siamo immersi in un mondo mentale di cui tendiamo a nutrirci cercando la gratificazione o il fuggire la sofferenza, dobbiamo uscire da questo mare, immergendoci in altre acque.

Dobbiamo invertire la nostra direzione dall’esterno verso un interno vero; dal dentro verso un dentro ulteriore.

Sulla via della perfezione possiamo trovare gli aiuti necessari al lavoro perché la compiutezza è latente ed è in noi e non altrove. Proviamo a esaminarli:

1. l’entrare in noi stessi. Il conosci te stesso.

La perpendicolare: è il primo strumento e su di esso non mi dilungo.

2. In tale opera occorre l’aspirazione, occorre coltivare ulteriore un ulteriore istinto in noi innato, quello di ricerca; occorre essere coraggiosi ed arditi.

Abbiamo visto che esistono gli ostacoli che ci portano a non abbandonare la nostra condizione iniziale; altre forze devono quindi tendere alla liberazione, alla compiutezza, alla realizzazione.

Pensiamo alla legge del moto di Newton ( F = m a ): se ipotizziamo la massa come la nostra attuale condizione di essere posti nel finito, dobbiamo cercare la forza necessaria al trasumanare in una accelerazione che può essere alimentata solo dal nostro cuore (e con tale termine mi riferisco all’essenza profonda della persona, alla sede di quanto più autenticamente siamo e non a quanto oggi ci si riferisce parlando del cuore, citato come fonte del sentimentalismo e delle emozioni) . Un cuore, che sia intelletto creativo, che vada all’essenza delle cose e riesca a fare chiarezza nella nostra profondità; andiamo a quell’ ”Intelletto d’amore”, caro ai Fedeli d’Amore e a Marsilio Ficino.

La mente deve portarsi sopra a ciò che è empirico e individuale e deve guardare a quello che è l’essenza di ogni cosa.

Tale opera non si addice ai deboli, ai pigri, ai rinunciatari e nemmeno ai tiepidi e ai pavidi. Concretamente non sarà possibile neppure a chi – avendo un profondo attaccamento per la condizione iniziale che sopra si è esaminata – non ha “fame e sete” di altro e di un altrove, ossia, in una sola parola, occorre sentire la necessità di trascendere i confini di spazio e di tempo dell’esistenza; solo così potremo avere l’accelerazione che porti la massa intrinseca della nostra condizione a raggiungere la forza necessaria per far giungere il nostro Essere a compimento.

3. Un intelletto che possa chiamarsi cuore, si volgerà all’essenza dell’esistere con uno sguardo che tenda oltre le cose, che non si lasci soggiogare dall’oggetto (non perché questo sia estraneo al percorso, ma perché questo possa essere ricongiunto sulla via della perfezione al soggetto). Per tale opera dobbiamo – come spiega Guénon – approfondire la relazione del cuore con l’intelligenza.

Dicendo queste cose, non si tratta certo di stabilire dove risieda l’anima – compito che lascio volentieri agli odierni nichilisti- bensì di scoprire come le nostre forze intellettive possano essere bastevoli a oltrepassare la nostra realtà corporale in una dimensione che parte certamente dal soggetto e che riesca ad armonizzarsi con l’oggetto.

Dalla perpendicolare alla livella.

4. Infine si deve possedere una capacità di adesione; il nostro lavoro non può essere un lavoro meramente intellettuale; deve diventare un fattore esistenziale; la conoscenza come gnosi non può prescindere da una prospettiva spirituale. Altrimenti fra il dire e il fare – ma anche tra il sapere e il fare, ed anzi anche più oltre il fare – resterà nel mezzo il mare della nostra esistenza non risolta.

Per tale ragione dobbiamo prestare attenzione a restare vigili e perseveranti a fronte delle spinte contrarie che giungeranno da altri e agli inevitabili colpi della sorte.

Il nostro lavoro deve portarci ad una consapevolezza interiore, alla quale noi aderiamo con gioia nella felicità: è il cambiamento dell’essere.

Il gallo ha cantato, la Luce è entrata nei nostri cuori.

Il punto di arrivo è uguale per tutti.

Difatti la via della perfezione non porta ad un cambiamento delle nostre condizioni di esistenza, ma ad un cambiamento del nostro essere. E’ la giusta interpretazione del nostro ruolo esistenziale, la comprensione di quello che veramente siamo; ed è per questo che sopra di noi sta una volta azzurra che è il colore dell’infinito.

LiberiMuratori-03Quando tutte le dualità sono ricongiunte, quando ci volgiamo verso le infinite cose che possediamo, senza pensare “alle cose che non abbiamo”, quando riusciamo a capire e sentire la nostra appartenenza al Tutto, allora è facile dire che ciò che doveva compiersi si è compiuto.

Il bello dell’esistenza può non essere solo l’inizio, ma anche la fine. La morte di Socrate narrata da Platone nel Critone e nel Fedone è di esempio; ma tanti esempi possono venire alla mente senza bisogno di risalire così tanto indietro nei tempi, poiché di esistenze effettivamente compiute ve ne sono molte.

Peraltro se il nostro cammino non potesse giungere a tale compiutezza, quello che a noi è richiesto – come ben si sa – è di tendere a quella “perfezione”, “incessantemente”; in effetti penso e spero di aver svolto questo tema semplicemente rammentando alcuni contorni essenziali di ciò che intendo per “via iniziatica tradizionale”.

Concludo, pertanto augurandomi e augurando a Voi Tutti Maestri Architetti di poter sempre più sperimentare in questa vita, in un grado che sia conforme alle nostre singole capacità, questa condizione di completezza e il dilatarsi di quegli istanti di pura Gioia che questa porta con sé.

Massimo Bianchi