La New Age presenta una tale eterogeneità negli orientamenti che la caratterizzano al suo interno, con l’assenza a tutti i livelli di un centro di gravitazione coerente, da indurre vari autorevoli studiosi a ritenere che non la si possa concepire come un movimento omogeneo. Tuttavia il fenomeno appare aver acquisito una sua identità abbastanza definita nel panorama socioculturale dell’ultimo decennio, come dimostra la numerosa serie di studi che vi sono stati pubblicati sull’argomento considerato nella sua generalità. Al riguardo è indicativo che, sebbene sulla New Age i giudizi siano estremamente diversificati , – essi vanno dalla critica demolitrice, alla convalida descrittiva, alla apertura problematica fino all’apprezzamento favorevole – gli studiosi hanno circoscritto in modo abbastanza concorde i suoi aspetti costitutivi.
Essi sarebbero il valore primario che viene attribuito all’esperienza, l’obbiettivo della trasformazione personale con tecniche psichiche e corporali derivate in genere dalle religioni orientali, ma anche da orientamenti assai più recenti, la negazione di qualsiasi opposizione dualistica (realtà-apparenza, spirito–materia, anima-corpo, individuo-mondo) per una concezione olistica, cioè totalizzante dell’uomo e del cosmo, la ricerca di una realtà non ordinaria attraverso l’alterazione dei livelli mentali normali, l’annuncio di una nuova era, quella dell’Acquario, di amore ed armonia tra gli uomini e con la natura che inizierà nel corso del millennio entrante.
Un’opinione ricorrente, anche se essa finora non ancora prevale fra gli studiosi, è che la New Age debba essere ascritta, per poter essere adeguatamente compresa, al clima storico del Post moderno, cioè dell’epoca che stiamo attraversando, caratterizzata da manifestazioni che, secondo i suoi interpreti, la distinguerrebbero in modo significativo da quella che la precede, chiamata del Moderno. Tuttavia c’è da rilevare che, a due decenni circa da quando le discussioni sul Postmoderno sono cominciate nel nostro paese, sull’eco di un dibattito che negli anni settanta si era sviluppato negli Stati Uniti per poi trasferirsi in Europa, non ancora esiste un’opinione ampiamente condivisa sui contenuti fondamentali e l’orizzonte culturale della Postmodernità. Si è assistito finora a proposte diverse di definizione, ad un pluralità di tematiche a volte contraddittorie – dalla fine della metafisica all’ermeneutica, dal tramonto dell’umanesimo alla proposta di un nuovo umanesimo, dall’ecologismo all’animalismo ed al postfemminismo, dalla critica ostile alla scienza ad una nuova visione della scienza e della tecnica, a nuove teorie della comunicazione sociale etc.- intrinseche ai settori di cui ogni studioso si occupa secondo criteri spesso specialistici. Questa incertezza riguarda ancora la periodizzazione storica: alcuni fanno iniziare l’età postmoderna attorno al 1875, come ha proposto per la prima volta lo storico Toynbee che vi individua l’inizio della mondializzazione, altri negli anni cinquanta o sessanta o settanta.
La difficoltà di delineare entro una prospettiva coerente il Postmoderno fa da sfondo agli sudi che finora hanno indagato i suoi nessi di relazione con la New Age. Essi sono stati realizzati da ricercatori di cultura cattolica: Massimo Introvigne, Pierluigi Zoccatelli ed Aldo Natale Terrin. I primi due sottolineano la continuità che legherebbe i fenomeni di secolarizzazione e di forte indebolimento delle religioni tradizionali, tipici della Modernità, con lo spirito relativistico della Postmodernità che ridurrebbe “il reale semplicemente ad un fascio di infinite possibili interpretazioni” (Introvigne) per definire il clima di crisi storicoculturale entro cui si svilupperebbe la New Age. Zoccatelli, per avvalorare la sua ipotesi, fa riferimento ad un discorso di Giovanni Paolo II, che definisce “il processo di secolarizzazione come un processo di estromissione della motivazione e della finalità religiosa da ogni atto della vita umana”, e ad altri documenti ufficiali dell’attuale pontefice e di altre personalità notevoli della cultura ufficiale cattolica, che considerano la moltiplicazione dei nuovi gruppi religiosi nell’età postmoderna come tali da favorire “la disintegrazione anziché il rafforzamento e la crescita”.
Terrin analizza il fenomeno nei suoi svolgimenti fondamentali, nei suoi richiami alle religioni orientali ed allo sciamanismo sino alle sue origini archetipiche ritrovate nel remoto mondo matriarcale. Tuttavia lo studioso conduce un’attenta, pure se a mio giudizio eccessivamente sostenuta, opera di collegamento tra queste tematiche e le esigenze sociali e determinati orientamenti culturali contemporanei – come quelli della nuova epistemologia con la “sua visione più morbida del mondo della scienza e delle rispettive acquisizioni che sembravano assolute ed intoccabili” – che rappresentano lo scenario entro cui la New Age elabora le sue risposte originali. Terrin riconosce quindi l’attualità “postmodena” del fenomeno auspicando che la cultura cristiana giunga a confrontarsi apertamernte coi suoi lati più autentici e significativi accogliendone nel suo seno le istanze e rinunciando alle sue rigidezze teologiche e dogmatiche. Al termine del suo lavoro sottolineo che lo studioso riconosce che il Postmoderno è stato “sfiorato” dal suo discorso, ma non è “mai stato affrontato direttamente” in quanto egli non disponeva di contenuti coerenti che lo definissero cui poter fare riferimento.
In questo mio intervento, senza pretendere di iniziare a risolvere il problema della complessa rete di relazioni che esiste tra il panorama culturale della fine della modernità e la New Age, intendo dimostrare come ci sia una chiara aderenza tra alcuni dei contenuti più ricorrenti delle teorizzazioni sul Postmoderno e tipologie di esperienza newageriane su cui in genere gli studiosi o si sono scarsamente soffermati o hanno del tutto sorvolato. Come il lettore si accorgerà ne esce una breve interpretazione della New Age di tipo demitizzante e minimalista, ma che a mio giudizio corrisponde al modo di sentire reale di quanti vi partecipano.
Per cominciare provo a tracciare una trama coerente di alcuni dei concetti che mi sembrano meglio delineare il clima culturale postmoderno.
Intendo fare riferimento alla concezione della crisi della “metafisica intesa come descrizione universalmente valida di strutture permanenti, essenziali” che, iniziata da Nietzsche, e descritta nella sua parabola storica dalla grecità classica fino all’età contemporanea da Heidegger (la sua opera ripropone ex novo il problema dell’essere cercandone l’origine nella temporalità), secondo Vattimo costituirebbe uno dei presupposti del tramontare della modernità. In altre parole l’epoca che stiamo attraversando sarebbe contrassegnata dalla dissoluzione dei fondamenti stabili, oggettivi, spesso dotati di un’autorità indiscussa, su cui si basavano la filosofia, la religione, la cultura, il costume, la vita morale in generale. Con questa idea il filosofo torinese integra taluni tratti del pensiero ermeneutico, soprattutto di Gadamer, secondo cui con lo sgretolamento dei sostegni metafisici unici ed indissolubili di cui era stata dotata la realtà, ormai “non ci sarebbero fatti” dal senso indiscutibile, “ma solo interpretazioni che coincidono con l’esperienza stessa del mondo”. Pertanto “che ogni esperienza di verità sia esperienza interpretativa è quasi una banalità nella cultura di oggi”.
Da qui anche la tendenza, sempre più evidente nella vita sociale attuale, con la velocissima diffusione dei mezzi di telecomunicazione individuali, capaci di trasferire ad un livello virtuale la percezione di situazioni reali, alla “fabulizzazione del mondo” (Vattimo) alla riduzione cioè a racconto dell’esperienza che ciascuno fa del proprio ritrovarsi nel mondo.
Vorrei sottolineare che questa interpretazione della civiltà postmoderna coincide con quanto sostiene Lyotard sul sapere scientifico contemporaneo che, per riuscire a conseguire una sua legittimazione sociale e culturale ricorrerebbe a forme di “piccola narrazione” nello spiegare le serie dei fenomeni oggetto dell’indagine sperimentale, rinunciando a giustificarsi attraverso il riferimento alle dottrine del progresso sociale o ai sistemi filosofici organici come quello egheliano tipici dell’Ottocento. Quindi secondo il pensatore francese oggi “lo scienziato è in primo luogo qualcuno che racconta delle storie, avendo semplicemente in più l’obbligo di verificarle”.
A questo punto ritengo interessante estendere il discorso a quanto si è verificato nell’ambito del romanzo che dopo tutto è il genere narratologico più rappresentativo della contemporaneità, più in particolare circoscrivendo il discorso ad alcune delle linee poetiche di fondo che i critici hanno individuato all’interno della corrente letteraria del Postmoderno, sviluppatasi negli ultimi decenni negli Stati Uniti. Nell’ambito di tale movimento sono compresi autori come Burroughs, Vonnegut, Barth, Barthelme che sono stati tradotti anche nel nostro paese. Le loro opere sono interpretabili come “liberi giochi introspettivi di intelligenza e di coerenza interiore” (Russel), il cui codice linguistico non viene selezionato privilegiandolo tra i vari strumenti espressivi messi a disposizione dal sistema della comunicazione letteraria. Inoltre questi scrittori – manifestando una tendenza intrinseca a tantissimi altri autori degli ultimi decenni come, ad esempio, i minimalisti – diversamente dai grandi narratori moderni che li hanno preceduti, non raccontano mai storie esemplari il cui personaggio principale, anche se vittima della sua inettitudine o preda della deiezione morale, incarni in sé l’essere di una umanità comunque vera, in contrapposizione ad una totalità sociale concepita come alienata e falsa. I protagonisti della narrativa recente, nonostante la relazione estremamente problematica che li lega alla realtà, non hanno nulla che li distingua in modo particolare dagli altri uomini.
Vorrei mettere in evidenza che il concetto di gioco cui ho accennato costituisce uno dei temi più frequentati dagli studi sul Postmoderno. Se ne potrebbe dedurre che esso sia una delle manifestazioni più diffuse della civiltà attuale, della leggerezza che le viene riconosciuta in contrasto con la serietà spesso disperata della modernità.
Ai fini del mio discorso ritengo potrebbe essere utile descrivere in sintesi la definizione che del gioco fornisce Gadamer in Verità e Metodo, i cui significati possono essere usati per spiegare linearmente il particolare contenuto ludico che gli studiosi generalmente riconoscono alle esperienze newageriane. Il filosofo innanzitutto asserisce che nel “giocare è riposta una peculiare, sacrale serietà” e che “il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso”. Questo è reso possibile perché “il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco che si produce attraverso il giocatore” e che diviene “signore del giocatore”. Di conseguenza secondo il filosofo tedesco il gioco esclude qualsiasi significato soggettivo e finalistico che non sia quello di scaricarsi dagli “sforzi dell’esistenza” di tutti i giorni. Il gioco quindi ha “una vera e propria autonomia, e proprio questo sottolinea il concetto di trasmutazione” che gli appartiene: esso significa che “un qualcosa tutto in una volta e in quanto totalità è qualcosa d’altro… è il suo vero essere di fronte al quale il suo essere precedente non è nulla”. In seguito alla trasmutazione i giocatori non hanno più un proprio essere per sé, abbandonano la propria identità originaria. Per Gadamer “la trasmutazione non è una specie di incantesimo magico che aspetta sempre la parola che ce ne liberi facendoci ritornare al mondo di prima, è invece essa stessa una tale liberazione e un ritrovamento del vero essere” – quindi della verità che appartiene ad ognuno e che altrimenti sempre “si sottrae e si cela”. Questa interpretazione del gioco viene riferita da Gadamer soprattutto all’opera d’arte – “l’arte è gioco” – ed al suo significato ontologico, quindi viene
elaborata nell’ambito di una dimensione eminentemente estetica. Tuttavia ai fini del mio discorso è interessante mettere in rilievo che il filosofo, citando le tesi che Huizinga espone in “Homo ludens” in riferimento ai giochi sacri delle religioni, sottolinea che la coscienza ludica nella sua indeterminatezza “rende impossibile distinguere tra credenza e non credenza”.
Questi temi che ho enucleato dal multiforme panorama culturale del Postmoderno, come ho accennato, possono essere utilizzati per spiegare i generi di esperienza
che caratterizzano più assiduamente la New Age. Innanzitutto c’è da sottolineare che i new agers, sia che si dedichino a sedute di meditazione, di solito tratte o liberamente ispirate allo Yoga, sia che si abbandonino alle danze, sia che si applichino dei massaggi l’un l’altro in riunioni di gruppo (in genere shiatzu, reiki o altro), ciò che normalmente fanno è dedicarsi ad un gioco molto serio. Essi vi si immergono integralmente, circoscrivendosi tra i suoi margini ordinari perché, semplicemente, secondo la definizione di Gadamer, è nella natura del gioco impossessarsi dei suoi giocatori senza che questi siano tenuti ad investirvi intenzionalmente la loro soggettività autonoma. La trasformazione che si verifica nell’essere personale di quanti partecipano agli incontri genera a volte perplessità fra gli studiosi perché la ritengono derivare da un’alterazione rischiosa dei livelli di funzionamento normale della mente.
Tuttavia si consideri che essa è pure una conseguenza del ruolo liberatorio che il gioco svolge dalle costrizioni di tutti i giorni, con il loro carico di atteggiamenti falsi e di una identità a cui spesso non si crede o almeno si sa non corrispondere, essere in contraddizione insanabile coi propri sentimenti reali. Di conseguenza, coerentemente con l’utilizzazione ludica delle tecniche praticate, la persona è condotta finalmente, senza inibizioni, a riconoscere la verità che appartiene al suo essere e che sempre gli ” si sottrae e si cela”. Un’osservazione necessaria è che come in qualsiasi genere di gioco non vi è una persona che lo diriga, ma sono tutti i partecipanti, sia a livello individuale che collettivo, che realizzano il gioco nella sua elementarità. L’esperto, il terapeuta o il veggente hanno la funzione di illustrare gli elementi, le tecniche strumentali che appartengono al gioco, ma non sono confondibili con una figura di sacerdote che sia “riconosciuta nella sua autorità rituale” (Terrin), come nelle religioni istituzionali. Ritengo che siano queste caratteristiche che ho descritto che fanno assomigliare la spiritualità dell’Età dell’Acquario alle religioni primitive ” nei cui rituali si dissolve la distinzione tra credenza e finzione” (Huizinga) quindi tra apparenza e senso della realtà. L’infrangersi di questo diaframma tuttavia a mio avviso non deve essere spiegato come un fenomeno regressivo, teso a far rinascere un senso primordiale del vivere in opposizione alla ” società totalmente organizzata”, ma è solo una coincidenza geografica o storica interpretabile come una caratteristica di fondo della civiltà postmoderna legata al dissolversi della metafisica occidentale.
Ancora secondo il mio giudizio, spiegare la spiritualità New Age attraverso il riferimento diretto alle religioni tradizionali dell’Oriente, cui pure i suoi rappresentanti asseriscono spesso di ispirarsi in base ad una loro diretta e assidua frequentazione dei luoghi di culto originari, è comunque in parte fuorviante. Tuttavia c’è da rilevare che, in genere, gli studiosi, anche quando si impegnano ad illustrare i contenuti che giudicano più significativi delle religioni a cui le associazioni acquariane si ispirano, per definire più nitidamente il campo in cui si sviluppa il fenomeno, senza che tra l’altro la questione sia sempre adeguatamente tematizzata, pongono in risalto la discrepanza che esiste tra le fonti tradizionali e le modalità particolari attraverso cui queste sono riutilizzate dai gruppi della nuova era. Questo problema è reso ancora più difficile da risolvere dalla compresenza di rituali, pratiche e metodologie riprese da tradizioni religiose estremamente diverse sotto tutti i profili all’interno di un’identica associazione.
Ad esempio, tutti i new agers che appartegono ad una stessa cellula possono dedicarsi a danze sciamaniche al fine di conseguire stati di trance, a pratiche dell’astrologia tradizionale dell’Occidente, dedicarsi alle tecniche di meditazione tantrica dell’Atha Yoga, per conseguire la condizione di illuminazione spirituale chiamata Shamadi, o anche pretendere di entrare in comunicazione con entità spirituali superiori secondo il moderno procedimento del Channelling invariabilmente, nel corso della stessa settimana di lavoro. Non credo che questa caratteristica sia interpretabile nei termini del sincretismo, cioè dell’orientamento ad intrecciare in un tessuto rituale e di credenze omogeneo elementi di tradizioni religiose differenti, come sostengono vari studiosi che a mio avviso adottano una prospettiva di tipo troppo generalizzante oppure derivante dalla considerazione di quanto avviene in qualche comunità dall’organizzazione più chiusa.
Un orientamento che può essere considerato complementare a quello appena descritto è la tendenza a spiegare la New Age attraverso una metodologia di discorso intenzionalmente coerente e che vuole confinarsi alla delimitazione dei suoi principi ideali, terminando poi di caricare questi di significati esagerati. Essa è eccessivamente schematica nei suoi presupposti. Ad esempio Lacroix, individuando le fonti del fenomeno in alcuni aspetti più ideologizzati del movimento della contestazione giovanile del Sessantotto, riconduce l’ideale olistico della New Age (il mondo naturale, la corporeità e l’interiorità umana ridotti in frammenti nella società attuale ci si adopera di ricostituirli nella loro totale integrità in prospettiva dell’avvento dell’Età dell’Acquario) ad una sorta di categoria eghelomarxista di totalità, autoritaria, negatrice di ogni principio di tolleranza e dalla quale è deducibile il progetto occulto della conquista del potere su scala mondiale.
In realtà, a mio giudizio, la condivisione di ideali analoghi, dai limiti alquanto indeterminati e che comunque non vengono imposti, semplicemente offre la possibilità agli iscritti alle associazioni acquariane di disporre di un linguaggio comune minimo che costituisca una base di comunicazione immediata e faciliti quindi la comprensione reciproca. Inoltre la compresenza di contenuti derivanti da tradizioni religiose tanto eterogenee all’interno della New Age dimostra che essi vi si trovano destrutturati, cioè destituiti dei loro fondamenti dottrinali originari e privati della virtù di richiedere un’osservanza stretta del loro ritualismo. Questo viene interpretato dai partecipanti in modo libero ed informale per adattarlo alle esigenze interiori di ognuno ed allo spirito del gruppo. Pertanto, dal mio discorso si deduce che la New Age, senza che i suoi esponenti ne siano necessariamente consapevoli, risponde ad una istanza antimetafisica, cioè che nega validità a qualsiasi tipo di fondamento oggettivo, ad ogni “struttura permanente ed essenziale” che sia posta a base della fenomenologia della realtà, in sintonia con la dinamica di fondo della civiltà postmoderna la cui vasta articolazione è essenzialmente priva di centri di gravitazione.
A questo punto rimane da spiegare come i concetti di interpretazione e di racconto, illustrati nella parte iniziale del mio intervento relativa alla cultura postmoderna, caratterizzino intrinsecamente la New Age.
Un aspetto che, a mio avviso, non viene vagliato adeguatamente dagli studiosi è il particolare genere di esperienza che i new agers conducono al termine delle loro sedute di gruppo, di qualsiasi tipo esse siano. Dopo la loro conclusione, da chi ha guidato il “gioco” si è invitati ad esprimersi, a fare domande e, sulla base di queste a raccontare indirettamente l’esperimento compiuto, traducibile come un viaggio verso zone ancora oscure della propria psiche profonda, iniziato col dissolversi del velo che divide il mondo obbiettivo dei fatti reali da quello indefinibile dell’immaginazione, reso sterile dal severo processo di acquisizione di responsabilità cui costringe la vita adulta. In genere chi narra di sé fa anche riferimento ai nodi più intricati della propria vita quotidiana, rivelando di voler assumere verso di essi una prospettiva di interpretazione diversa, cioè mediata dai suggerimenti provenienti dalle regioni del suo inconscio sondate attraverso gli esercizi di meditazione, e di volersi staccare dalle abitudini mentali che lo vincolano ad un punto di vista bloccato, che non gli consente di scorgere alternative dinanzi alle situazioni che lo fanno soffrire. In questa prospettiva la condizione concreta si trasforma in illusoria ed invece quanto è stato intravisto nel sogno tende ad assumere una dimensione realisticamente possibile.
Sembra di sentire in questo un’eco dell’etica del Buddhismo, l’unica delle grandi religioni ad impostazione antimetafisica, che considera il male come una conseguenza di qualsiasi fenomeno di attaccamento alle cose, alle situazioni, ai sentimenti, alle abitudini fino agli ideali astratti. Tuttavia sottolineo che la New Age – il cui debito verso il Buddhismo a mio parere è ancora un problema da verificare e risolvere – non assume quasi mai a riferimento il concetto di Sunyatta, cioè di vuoto, che invece ha una funzione fondamentale nella visione buddhista.
CONCLUSIONI
Per concludere, le caratteristiche che ho descritto della New Age, compiendo un’operazione di isolamento dal suo vasto universo, corrispondono a tematiche assai frequentate dagli autori che hanno studiato il Postmoderno. Questo deve essere anche considerato soprattutto come l’espressione dell’esaurimento inevitabile e progressivo delle autorità tradizionali e della loro prerogativa di imporre il proprio potere, secondo criteri di intransigenza più o meno espliciti. E’ un fenomeno che caratterizza, seppure non in modo lineare, la storia dell’ultimo secolo all’incirca e di cui sono espressione la crisi della metafisica, dei sistemi ideologici, delle religioni istituzionalizzate, della fede nell’oggettività della conoscenza scientifica e delle possibilità illimitate della tecnica. L’enorme espansione che da alcuni decenni sta avendo la New Age dimostra che essa corrisponde in modo estremamente duttile e diversificato ad esigenze diffuse nell’attuale società a democrazia avanzata ai cui membri si riconosce la prerogativa – non solo formale, ma resa concretamente realizzabile dalla crescita economica e dal conseguente aumento delle possibilità e del benessere in strati sempre più vasti – di esprimere e coltivare liberamente i propri interessi individuali e di gruppo in una condizione di piena parità di diritti rispetto agli altri membri.
Le associazioni acquariane rispondono a chiunque desideri coltivare liberamente la propria spiritualità, fare esperienza del proprio mondo interiore senza obbedire a principi di autorità prestabiliti, tentare di fondere i propri sogni col mondo della quotidianità, raccontare la propria storia alle persone con cui si aggrega ricevendo in ogni caso rispetto e comprensione. Per questi motivi ritengo che la New Age non sia destinata a morire, come alcuni asseriscono, ma semmai a modificare i suoi orientamenti adeguandosi alla evoluzione delle esigenze di quanti si rivolgono ai suoi networks. Inoltre penso che non sia una manifestazione di crisi, di tradimento dei valori originari, come pure hanno sostenuto alcuni suoi notevoli esponenti, ma piuttosto di una elevata capacità di adattamento e di vitalità il fatto che essa si sia legata a fenomeni di mercato, con la produzione di tutta una serie di oggetti di consumo (dall’abbigliamento, alla musica ai profumi, ai libri etc.) distribuiti in reti di vendita dalla fisionomia ormai ben individuabile.
Tuttavia, verso il fenomeno ho pure delle perplessità. Gli esponenti della New Age, dediti come sono alla loro visione sincronica o blandamente utopica della realtà, paiono intenzionalmente non consapevoli, come del resto i raffinati teorici del postmoderno, che il clima di angoscia e di nevrosi, che pure riconoscono appartenere al mondo attuale e verso il quale hanno elaborato una originale strategia terapeutica, sia anche la conseguenza della crisi di tradizioni culturali che comunque avevano garantito delle certezze, un senso di identità definito alla persona, la trasmissione di valori solidi attraverso le generazioni. Infine i new agers sono talmente fiduciosi sugli esiti dei loro metodi da eliminare sin dall’inizio l’eventualità del fallimento delle aspettative, la cui responsabilità, quando si verifica, ricade esclusivamente sui singoli. Questi corrono il rischio di ritrovarsi così in una condizione di solitudine più desolata che in precedenza, perché ancora più disorientati su come poter esprimere il proprio disagio.