All’indomani della Seconda Guerra Mondiale e della presa di coscienza della portata dell’Olocausto, le promesse dei politici inglesi di assicurare l’indipendenza per gli stati arabi e nel contempo l’ideazione di una patria nazionale per gli Ebrei in Palestina si sono realizzate in una vera e propria tragedia epica i cui effetti continuano inesorabilmente, sin dal 1948, ad avvelenare i non-rapporti tra le parti coinvolgendo i sostenitori di una parte e dell’altra; l’Occidente ed il mondo musulmano.
E’ dagli ’20, in realtà, si è costretti ad assistere a macroscopiche ingiustizie che affliggono sia gli arabi che gli israeliani.
Gli inglesi avevano buon gioco a sostenere l’indipendenza di una nazione araba in quanto avevano bisogno delle forze arabe per combattere i turchi. Ed analogamente ebbero buon gioco a sostenere la costituzione di una patria per gli Ebrei quando ebbero bisogno del loro appoggio, politico e scientifico, durante la Prima Guerra Mondiale, benché questo sarebbe avvenuto in Palestina a netta prevalenza araba (è la cosiddetta Dichiarazione Balfour); tant’è che il primo ministro del tempo Lloyd George, nelle sue memorie, a proposito della conquista di Gerusalemme da parte del generale Allenby, strappandola ai musulmani, usò l’espressione “riprendere possesso” come si trattasse del seguito di una crociata e tale mentalità si è mantenuta nei rapporti dell’Occidente con il Medio Oriente per tutto il ventesimo secolo.
Ma lo stesso Lloyd George omise di riportare un suo intervento alla Camera dei Comuni a proposito della rivolta araba “[…] Il Governo giunse alla conclusione, sulla scorta di informazioni raccolte in ogni parte del mondo, che fosse di vitale importanza assicurarsi le simpatie della comunità ebraica // Certo non nutrivamo alcun pregiudizio contro gli arabi, considerando che in quel momento centinaia di migliaia di nostri soldati stavano combattendo per la loro emancipazione dal turco // Gli ebrei, con tutta l’influenza di cui disponevano, risposero nel modo più nobile all’appello // Gli arabi pretendevano di fatto la cessazione dell’immigrazione ebraica. Non potevamo accettarlo senza disonorare gli impegni assunti. Lo stato delle cose non era tale da consentire agli arabi di sostenere che l’immigrazione ebraica stava cacciando via loro, gli antichi abitanti […] Gli obblighi imposti dal Mandato erano specifici e ben definiti. Si trattava di incoraggiare la fondazione di una patria nazionale per gli ebrei in Palestina senza danneggiare i diritti dellapopolazione araba // dobbiamo fare in modo che entrambi gli elementi del mandato siano rispettati”.
Era il 1936 ed appare evidente come il seme della discordia, che darà i frutti che continuiamo ad osservare, fosse già stato piantato. Del resto non era possibile rispettare entrambi gli elementi del Mandato britannico in Palestina intanto che la contemporanea persecuzione degli ebrei nella Germania nazista si sarebbe trasformata nell’Olocausto che avrebbe garantito l’istituzione di uno stato israeliano in Palestina ma indipendentemente dai “diritti della popolazione araba”. E di questo in tanti erano consci; nel 1938 lo storico George Antonius sostenne a chiare lettere che “la fondazione di uno stato ebraico in Palestina… non può essere conseguita se non con il trasferimento forzato degli arabi […]” e chiedeva uno stato arabo indipendente “[…] nel quale possano vivere in pace, sicurezza e dignità, godendo di pieno diritto di cittadinanza […]”. Occorreva a suo parere trovare una soluzione per gli ebrei d’Europa altrove, non in Palestina ed affermava “Scaricare il grosso del peso sulle spalle della Palestina araba equivale ad una miserabile fuga dai doveri che ricadono sull’intero mondo civile. Ed è anche esecrabile sul piano morale. Non esiste codice morale che giustifichi la persecuzione di un popolo nel tentativo di alleviare la persecuzione di un altro. Il rimedio per la cacciata degli ebrei dalla Germania non sta nel cacciare gli arabi dalla loro patria; e non si può recare sollievo alla disgrazia degli ebrei al prezzo di infliggere una disgrazia analoga a un popolo pacifico e innocente”.
Ricordo che si è ancora nel 1938 e che quelle parole, tristemente profetiche, non influirono minimamente sulle scelte che verranno fatte dieci anni dopo. Seguì in effetti una cauta proposta inglese di trasferire gli ebrei in Uganda; ma dalla parte ebraica, ancora prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si pensava al “trasferimento” degli arabi palestinesi nella regione di Djezaira in Siria, in quei stessi luoghi desertificati (intorno a Deir es-Zour ed Aleppo) nei quali appena vent’anni prima si era concluso l’Olocausto del popolo Armeno.
C’è un’altra figura storica del tempo che si espresse in merito anche se con un taglio totalmente diverso; Winston Churchill, già nel 1937, scriveva “[…] lo stato ebraico, ricco, affollato e progressista, sta nelle pianure e sulle coste del mare [della Palestina ovviamente]. Tutto intorno, sulle colline e sugli altipiani // i bellicosi arabi della Siria, della Transgiordania, dell’Arabia, appoggiati dalle forze armate dell’Iraq, agitano la minaccia di una guerra irriducibile […]“
Per sopravvivere lo stato ebraico deve essere armato sino ai denti e dovrà richiamare nel suo esercito sino all’ultimo uomo abile. Ma fino a quando i grandi popoli arabi dell’Iraq e della Palestina permetteranno la continuazione di questo processo? Possiamo pensare che gli arabi rimarranno a guardare impassibili la costruzione, con il capitale e le risorse mondiali dell’ebraismo, di un esercito ebraico dotato delle più micidiali armi da guerra, fino a quando non sarà abbastanza forte da non avere più paura di loro? E se mai l’esercito degli ebrei conseguirà questo risultato, chi può essere certo del fatto che, stretti come sono da quei limiti angusti, non piomberanno sulle terre incolte che si estendono intorno a loro?”. Profetico e pragmatico anche Churchill. Ed altrettanto pragmatico si rivelò il comandante della Legione Araba, John Bagot Glubb, nel suo libro di memorie dove scrisse che “[…] la tragedia ebraica traeva origine nelle nazioni cristiane dell’Europa e dell’America. Finalmente la coscienza della Cristianità si era risvegliata. La secolare tragedia degli ebrei doveva cessare. Ma quando si trattò di pagare il prezzo dell’espiazione per gli errori passati, le nazioni cristiane dell’Europa e dell’America decisero che il conto doveva essere saldato da una nazione musulmana dell’Asia”.
In sostanza, già ben prima del fatidico 1948, si era stabilito un clima di sospetto, paranoia e sofferenze senza fine; gli arabi e gli ebrei guardavano l’Europa travolta dalla Seconda Guerra Mondiale, i primi temendo che la Gran Bretagna avrebbe finito per riconoscere uno stato israeliano sulla loro terra, i secondi contemplando l’annientamento della loro razza in Europa mentre gli inglesi tentavano di bloccare anche le poche navi di profughi ebrei che riuscivano a raggiungere la Terra Promessa.
C’è da chiedersi, allora come oggi, per quale motivo i palestinesi di allora dovessero rassegnarsi ad una promessa fatta dalla Gran Bretagna nella Prima Guerra Mondiale ad un popolo i cui antenati erano vissuti sulla loro terra due mila anni prima? Per quale motivo la nuova ondata di profughi musulmani doveva pagare questo prezzo per poi sentirsi dire che erano loro gli aggressori e le vittime erano quelli che li avevano spossessati? Nei decenni a venire, infatti, i palestinesi sarebbero diventati “terroristi” mentre quelli che si erano presi le loro terre sarebbero stati gli innocenti, i rappresentanti di una nazione rinata come la Fenice dalle ceneri di Auschwitz. Agli occhi del mondo del 1948 che cosa contava la sorte di 750.000 profughi palestinesi a fronte dell’eccidio di 6 milioni di ebrei?
E’ questo il canovaccio di una tragedia che continua ad essere scritta da allora, che è stata punteggiata da tante, troppe, rappresentazioni di morte sempre brutale da ambo le parti e che è giunta all’ennesimo atto sul quale non riesce a scendere la parola “fine”.
E qui si fermano le note storiche non volendo proseguire in una analisi politica – le responsabilità politiche sono fin troppo ben individuabili nelle evidenze degli atti storici – ma tentando di esemplificare come un Massone possa porsi di fronte al conflitto in atto.
Il discorso potrebbe esaurirsi assai brevemente in quanto i principi e le finalità della Massoneria, come chiaramente indicate dalla Tradizione Massonica e dalle Costituzioni, escludono categoricamente che la guerra e la morte possano essere accettate come forma di lotta per il raggiungimento della libertà e dell’affermazione del valore, politico ed umanistico, di ogni singolo componente di quei popoli. Richiamo infatti che la Massoneria “Intende al perfezionamento ed alla elevazione spirituale dell’Uomo e dell’Umana Famiglia. Persegue la ricerca della verità ed il perfezionamento dell’Uomo e dell’Umana Famiglia; opera per estendere a tutti gli uomini i legami d’amore che uniscono i Fratelli; propugna la tolleranza, il rispetto di sé e degli altri, la libertà di coscienza e di pensiero. Si ispira al Trinomio: Libertà – Uguaglianza – Fratellanza”.
Niente di più lontano, quindi, da un conflitto; da un conflitto poi che si mantiene malgrado tutti i tentativi di porvi rimedio che sono costati, anch’essi, dolore e sangue.
Ma sarebbe troppo semplicistico pervenire alla conclusione che il conflitto palestinese- israeliano sia da rifiutare perché il conflitto è una realtà ben evidente e coinvolge giorno per giorno l’Uomo e la Umana Famiglia. I Massoni non possono ignorarlo sulla base della Tradizione e delle Costituzioni perché se così facessero verrebbero intrinsecamente a mortificare il motivo d’essere della Massoneria ed a negarne i principi nel momento stesso nel quale li propugniamo.
E’ un connubio obiettivamente difficile quello tra Massoneria e conflitto; un evento contemporaneo che, probabilmente, non può essere affrontato dal punto di vista istituzionale ma lo può essere dal punto di vista individuale come osservatori plasmati dalla Iniziazione.
Qui, in verità, si palesa tutta la nostra imperfezione d’uomini; quella stessa imperfezione, quella insoddisfazione del proprio essere, quel desiderio di miglioramento che ci hanno spinto a bussare alle porte di un Tempio. Intendo dire che la ricerca della verità comporta un approccio spirituale al conflitto palestinese-israeliano che, per quanto mi riguarda, risente della mia formazione incompleta, delle mie letture, delle esperienze e delle idee che ho costruito sulla base dell’una e delle altre. Quindi, nel proseguo, non parlerò più di Massoneria e quando adopererò il termine “il Massone” mi riferirò a me stesso, con tutti i difetti che non ho alcuna fatica a riconoscermi.
L’osservazione degli eventi precedenti, dal 1948 (ma anche prima), dimostra come gli israeliani abbiano sempre vinto le guerre contro la parte araba. Ogni guerra ha evidenziato la superiorità tecnologica e strategica degli israeliani dando fama di condottiero a figure militari, cosa che non si è verificata dall’altra parte. Dimostra anche come gli israeliani abbiano messo in atto una politica di progressiva erosione del territorio con una colonizzazione spinta. Tutto il conflitto sembra quindi mantenersi sulla invasività degli israeliani e sulla incapacità dei palestinesi di opporre non tanto una resistenza quanto una capacità di reazione militare. Sono dovuti ricorrere ai metodi di lotta del terrorismo che, com’è altrettanto evidente, non ha portato, allora come adesso, a nessun vantaggio significativo per le aspirazioni palestinesi. Ha anzi innescato ulteriori contro-reazioni causa di lutti che colpiscono indiscriminatamente e che scandalizzano tanto l’opinione pubblica occidentale. Il conflitto mette in evidenza (se ne fosse bisogno!) l’indifferenza delle organizzazioni mondiali deputate al controllo ed alla risoluzione dei conflitti; indifferenza che appare sempre più incompetenza, incapacità di stabilire cosa fare e come farlo, incapacità di far sentire la propria voce, incapacità di imporre il proprio ruolo istituzionale. Un altro degli inutili costi della cosiddetta comunità internazionale.
Dietro i due antagonisti si muovono i comprimari; quei governi che, in maniera più o meno manifesta, danno aiuti e contributi alle parti in conflitto. Come potrà allora avere termine questa immane tragedia annunciata?
Il Fr. Morris Ghezzi, in una sua tavola del 2011 (La tragedia dell’essere per natura altro), scrisse alcune righe che si prestano a descrivere la situazione medio-orientale: “….. la vita dell’uno è la morte dell’altro. Torna la natura nella sua nuda e dura realtà con la sua legge fattuale, priva di mediazioni giuridiche, artificiali, umane. L’altro è solo l’altro, non ha collegamenti, è il nemico assoluto, è l’avversario irriducibile, è la diversità da ricondurre ad omogeneità attraverso l’assoggettamento o l’eliminazione”.
E’ la fotografia del fenomeno terroristico e l’essenza del dramma cui assistiamo.
Un dramma che, malgrado le premesse, non è politico ma squisitamente umano; un dramma che coinvolge due popoli che nutrono la medesima ed apparentemente inconciliabile convinzione di avere diritto esclusivo allo stesso lembo di terra.
Non pare che il tentativo di risolvere il conflitto abbia preso coscienza della vera natura del conflitto, preferendo soluzioni facili, veloci ed inutilmente sanguinarie.
Ancora oggi gli israeliani non possono mettere in soffitta gli abiti di guerra; sono costretti a vivere nell’angoscia, aspettando il suono delle sirene d’allarme, il rombo dei razzi, con il timore di essere colpiti o di vedere colpiti i propri i cari. Tutti i giorni.
Ancora oggi i palestinesi vivono nell’angoscia, proprio come gli israeliani, piangendo le loro perdite sproporzionate, vedendo le loro case abbattute nella certezza di non poterle ricostruire.
C’è una disarmante disparità di risorse tra i due popoli che, verosimilmente, non è estranea agli atteggiamenti di intolleranza.
E così si è arrivati ad un livello di efferatezza e disperazione in continua crescita.
In tali condizioni, non è più sufficiente il cessate il fuoco; è indispensabile cambiare radicalmente le modalità di approccio al conflitto.
Giustizia, indipendenza, autodeterminazione, libertà; sono le aspirazioni giuste cui ogni popolo, col suo patrimonio di storia-cultura-tradizione, deve anelare. Sono le garanzie senza le quali un popolo non può esistere e riconoscersi come tale.
Giustizia, indipendenza, autodeterminazione, libertà, richiedono che i due contendenti imparino a vivere l’uno accanto all’altro e non l’uno dando le spalle all’altro, condividendo sentimenti quali l’empatia e la compassione; sentimenti il cui esercizio corrisponde al riconoscere la tragedia dell’altro ed a muoversi contemporaneamente l’uno verso l’altro.
Giustizia, indipendenza, autodeterminazione, libertà, possono essere realizzati solo se i due contendenti adotteranno ed eserciteranno la virtù della buona volontà ed inizieranno a parlarsi, parlarsi, parlarsi accettando il metodo del compromesso.
Il Massone, che lavora per realizzare per sé e per l’umanità quelle virtù cui aspirano i due popoli contrapposti, non può che condividere ed auspicare la scelta del compromesso come soluzione del conflitto palestinese-israeliano.
Ma indubbiamente il compromesso richiede che sia avviato e portato avanti il processo di pace.
I due popoli non possono che avere profonda fiducia nel processo di pace (e noi con loro) perché non c’è nient’altro nel quale possono avere fiducia per il presente e per il futuro.
Israele ha diritto a difendersi ma la violenza messa in campo contro i palestinesi non appare giustificabile.
I palestinesi hanno una vita intollerabile per qualità e dignità ma attaccare disordinatamente Israele con tutti i mezzi a disposizione, forniti da governi-canaglia, è contro produttivo, inutile ed afinalistico.
La soluzione del conflitto è nel dialogo, nel colloquio diretto, nel guardarsi negli occhi parlando. E’ una soluzione squisitamente umana nella quale non giova implorare ed attendere l’intervento divino da nessuna delle due parti.
Il Grande Architetto dell’Universo, sia esso quello dei palestinesi che quello degli israeliani,, che quello di cui altro credente, può parlare all’animo degli uomini ma non sarebbe l’Essere Supremo se imponesse la Sua volontà se quest’ultima non sarà la volontà di quegli uomini che lo invocano.
M:.A:. Domenico P.