La tristezza è quell’ombra che paralizza e deprime; dalla collera sorge la tristezza, poiché la mente turbata, quanto più disordinatamente si agita, tanto più cade nella confusione; quando la mente ha perduto la dolcezza della tranquillità si nutre della tristezza, che scaturisce dal turbamento.
La tristezza è un abbattimento dell’anima, che fa seguito ai pensieri di collera; è quell’ombra che ci prende, che ci paralizza e deprime, spegnendo, poco per volta, in noi, la voglia di vivere.
Essa si riconosce dall’incapacità di piangere, perchè solo grazie al dono delle lacrime possiamo sperimentare la tristezza quale stato per i nostri errori.
La tristezza si insinua nel cuore dell’uomo, lentamente corrode tutta la sua vita e se non viene combattuta essa finisce per dimorare in noi, come un inquilino, sempre più difficile da scacciare.
La tristezza è il non – piacere per eccellenza: essa spoglia da ogni piacere e fa inaridire il cuore ed è alla radice della depressione nervosa, perchè conduce al sentimento del non – senso della vita e a uno stato di letargo, in cui la vita appare senza luce e senza speranza: in una parola, invivibile.
Io mi sono posto una domanda: perchè la mia anima si turba? Perchè, a volte, la tristezza permane come un ombra nel nostro profondo, come un brusio che non cessa di tormentarci?
Tante possono essere le ragioni che, di volta in volta, generano in noi tale stato: le sofferenze patite ingiustamente, le contraddizioni reali della nostra vita, la constatazione delle frustrazioni dei nostri desideri, anche quelli più nobili e giusti.
Spesso, la vita e la realtà ci contraddicono in molti modi, ma guai a chi pensa di poter vivere in un mondo dorato e privo di frustrazioni, guai a chi si nutre di nostalgie immaginarie e di attese impossibili; guai a chi si innamora dei propri ruoli e non ne vuol sapere di rinunciarne e di crescere..!
Se, invece, ci esercitiamo ad accettare le contraddizioni quotidiane; se, pur soffrendo, sappiamo cogliere ed elaborare le nostre ferite, i nostri perchè, allora potremo anche aprirci a quella consolazione che viene dal nostro principio, dal nostro essere e dalla comunione con i nostri fratelli.
Scendendo più in profondità, mi pare che l’essenza della tristezza consista nel suo essere una patologia riguardante il nostro rapporto con il tempo; da una parte si idealizza il passato come tempo indiscutibilmente migliore di quello attuale e lo si evoca con accorati accenti di nostalgia non privi di una certa ottusità; dall’altra si sogna di realizzare in un futuro mitico, cio che è destinato a cominciare sempre domani, oppure si teme l’avvenire per le incognite che può riservare; insomma, in un modo o in un altro, ci si rifugia in un mondo immaginario per non aderire alla realtà, ma, così facendo non si coglie il presente, come l’oggi, come l’ora irripetibile che ci è data da vivere.
Avvertire la tristezza di fronte ad una prospettiva di morte, è propria del genere umano; la chiave di volta, peraltro, percorrendo il nostro sentiero, – tutto fuor che facile – si ha solo quando si intravvede l’amore e quando si sa che l’amore, l’anima mundi, può essere la ragione del vivere e del morire; allora cessa la tristezza e si fanno strada la beatitudine e la gioia, sempre, rinnovate, che albergano in noi.
La Massoneria è gioia e quindi, antidoto alla tristezza, alla capacità di vivere, in modo adatto, il rapporto con il tempo, di vivere il momento presente, l’eterno presente; la gioia è una virtù che unisce il tempo umano nell’oggi e nella pienezza del nostro essere, anticipando, nel presente, la nostra dimensione finale, la gioia della meta che ci attende all’interno della conoscenza universale.
La gioia non è un vago e spontaneo sentimento, ma uno stato da ricercare con sforzo ed impegno; dobbiamo obbedire al comando della gioia ed esercitarsi ad essa, vivendo con pienezza, il momento presente, così da sperimentare che, nè il passato nè il futuro, possono determinarci, ma che ciò è possibile vivendo solo l’oggi della nostra coscienza.
Ognuno di noi dovrebbe iniziare la propria giornata alzando gli occhi al cielo ed ascoltare la vera pulsione del nostro cuore, ringraziando, nel modo che più ci è proprio, per aver ricevuto quel bellissimo dono che è la vita.
Una forma particolare di tristezza è l’invidia ed essa nasce dalla consapevolezza, dall’osservazione del bene e della felicità altrui; la matrice di questo stato d’essere è il desiderio di avere noi, le “cose” degli altri, anche se a volte, si vorrebbe, semplicemente, che l’altro non avesse quei beni, quelle caratteristiche,e quei determinati doni ed è per questo che si cerca di nascondere questo sentimento inconfessabile, di cui non ci si vanta, ma ci si vergogna.
Più in profondità, l’invidia è un riflesso che consiste nel paragonarsi sistematicamente agli altri; è ciò che riflette la mia capacità personale di riconoscere ciò che ci è stato concesso, rispettivamente, a me ed agli altri.
Ci sono sempre qualità che gli altri hanno e io no…; fissandomi su queste, invece di rallegrarmi della vita qual essa è, osservo e invidio i doni che essa ha distribuito agli altri.
L’invidia è un sentimento che, purtroppo, nasce, già, nell’infanzia, soprattutto nei rapporti familiari.
L’ invidioso è colui che si sente escluso da un bene che, l’altro, che gli è accanto, possiede: il bene dell’altro è sofferto come un male proprio.
Chi è preso da questa patologia guarda con occhio cattivo la felicità, il bene e la virtù dell’altro, fino a sfigurarne l’immagine e la realtà, fino a concentrare tutti i desideri su ciò che gli altri possiedono.
L’invidia assume a volte una connotazione specifica, che siamo soliti definire come gelosia; essa nasce dal vivere gli uni accanto agli altri, dal confronto continuo, dal verificare ciò che gli altri sono e fanno e, di conseguenza, l’approvazione e il riconoscimento che essi ricevono: ma è proprio qui che noi dovremmo esercitarci a gioire con chi gioisce, a piangere con chi piange, a condividere le gioie e le tristezze dei fratelli e dei nostri simili, perchè le gioie sono doni per tutti e per l’utilità comune.
Eppure, invidia e gelosia sono i mali più presenti nella vita comune e provocano liti, contestazioni, dissidi, mormorii……
Esiste un antidoto all’invidia ed alla gelosia?
Si, la gratitudine, ossia il saper rendere grazie, il saper stupirsi del bene, da chiunque venga compiuto, il saper vedere con l’occhio buono tutto ciò che fiorisce intorno a noi….
Solo chi sa riconoscere ed essere grato per il bene fatto dagli altri è capace di fare il bene, di purificare il suo operare e di cantare il suo ringraziamento al G.A.D.U. per tutto ciò che opera nella storia e nella vita d’un uomo.
Il sentimento dell’invidia cessa di essere in noi tutti solo quando sapremo dire che “ciò che ho potuto fare di bene, l’ho fatto agli altri, che sono con me: senza questi fratelli, senza questi miei amati non avrei potuto fare quel poco di bene che ho operato”.
Il Gran Maestro degli Architetti e Serenissimo Presidente del Rito Simbolico Italiano
Fr. M.A. Giovanni Cecconi
Aprile 2013