INNO A OBERDAN

Inno dei Repubblicani di Ancona


Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan!

 

Le bombe, le bombe all’Orsini,

il pugnale, il pugnale alla mano

a morte l’austriaco sovrano

e noi vogliamo la libertà.

 

Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan!

 

Vogliamo formare una lapide

di pietra garibaldina;

a morte l’austriaca gallina,

e noi vogliamo la libertà.

 

Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan!

 

Vogliamo spezzare sotto i piedi

l’odiata austriaca catena;

a morte gli Asburgo-Lorena,

noi vogliamo la libertà.

 

Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan!

Morte a Franz, viva Oberdan! 

 

Anonimo

1882 circa

  

Adottato dai Repubblicani di Ancona fin dal 1882, i personaggi citati in questo brano di autore ignoto sono Felice Orsini e Guglielmo Oberdan. Due personaggi, due attentatori alle tiranniche “corone” d’Europa.

Felice Orsini, nato a Meldola il 10 dicembre 1819, figlio di un carbonaro, nel 1858 compie il suo gesto attentando alla vita dell’Imperatore di Francia Napoleone III. Era stato con Mazzini per tutto il periodo della Repubblica romana e ancora dopo fino al ‘54, quando gli austriaci l’avevano arrestato in Ungheria e rinchiuso nel castello di Mantova. Successivamente però, con Mazzini aveva rotto. Voleva avvicinarsi a Cavour, a cui aveva anche scritto una lettera. Era anche conosciuto per via delle Memorie pubblicate in Inghilterra. Nel libro rivolgeva critiche molto aspre a Mazzini e dichiarava la sua disponibilità a collaborare con il governo piemontese nella eventuale guerra contro l’Austria. Conosciuto da tutte le polizie d’Europa, gli austriaci lo avevano catturato nel ’54, poco dopo il secondo moto della Lunigiana e la cospirazione in Valtellina. Ma i primi a mettergli le manette erano state le guardie pontificie nel ’44. Poi, aveva svolto mansioni importanti nella Repubblica romana: era stato incaricato di metter fine agli eccidi e ai pestaggi con cui i patrioti si vendicavano delle angherie subite dai sanfedisti. Era stato mandato ad Ancona come commissario, quindi aveva partecipato alla difesa di Ascoli, alla ritirata su Spoleto, ai combattimenti della capitale. Era stato anche con Manin nella famosa sortita di Mestre che costò agli austriaci un centinaio di morti. E poi, nel 1856 c’era stata la fuga dal castello di Mantova, forse la sua impresa più clamiorosa dato che pareva impossibile scappare dal castello. Infine l’attentato a Napoleone III, la sera del 14 gennaio 1858. Vi era allora una corrente di pensiero, anche tra i non mazziniani, secondo la quale il perno del sistema reazionario nel mondo era Napoleone III. Lo pensava anche Marx, che, quando Napoleone aveva vinto le elezioni presidenziali, aveva detto che tornavano a regnare in Francia sia i Borboni che gli Orléans. Orsini, che aveva organizzato una società segreta, “I Figli della Patria”, pensava che alla morte di Napoleone III i popoli soggetti d’Europa si sarebbero “levati” per “darsi l’un l’altro la mano”, per “mettere in atto ciò che vuole la solidarietà delle nazioni”. Era convinto che bisognasse “aspettare operando”, cioè approfittare “delle modiche libertà del Piemonte, per ispargere nelle vicine contrade, soggette al dispotismo, i lumi, i mezzi della propaganda rivoluzionaria”. Intanto però credeva anche che non sarebbe stato inutile liberarsi del “despota… che tiene compressa con una mano di ferro l’Europa intiera”. Ecco perciò l’idea dell’attentato. Orsini e i suoi compagni agirono quando Napoleone e l’imperatrice Eugenia intervennnero a una prima dell’Opéra. Tre bombe lanciate sotto la carrozza esplosero simultaneamente. Lo scoppio spense tutti i lampioni a gas. Nell’oscurità, tra i nitriti dei cavalli morenti e il panico della folla si contarono quattro morti e 104 feriti tra la scorta e il pubblico. Quattro feriti erano gravissimi e spirarono pochi giorni dopo. Dunque, otto morti in tutto. L’imperatore e l’imperatrice, con l’abito bianco insanguinato, sortirono illesi. Il processo ad Orsini si trasformò in un formidabile atto d’accusa all’Austria, ripreso dalla stampa di tutta europa. Orsini, assolutamente pentito del suo gesto, scrisse una lettera all’imperatore e il suo avvocato, che era il grande Jules Favre, ottenne il permesso di leggerla in aula. La lettera diceva: “Sire, sta oggi in poter vostro di fare l’Italia indipendente o di tenerla schiava dell’Austria e di ogni specie di stranieri. Intendo io forse con questo che il sangue dei francesi sia sparso per gli italiani? No: eglino non vi domandano ciò; essi chiedono che la Francia non intervenga contro di loro: essi chiedono che la Francia non permetta che alcuna nazione intervenga nelle future e forse imminenti lotte dell’Italia contro l’Austria ... Non disprezzi la Maestà Vostra Imperiale le parole di un patriota che sta sul limitare del patibolo: renda l’indipendenza alla mia patria e le benedizioni di 25 milioni di abitanti la seguiranno dovunque”. Hubner, l’ambasciatore austriaco in Francia, annotò nel suo diario che la corte d’assise aveva “trasformato l’assassino in un martire politico” e che il difensore di Orsini aveva fatto “un discorso tutto politico da capo a fondo, in favore dell’Italia libera e contro l’Austria”. Aggiungeva poi che “l’imperatrice aveva perduto la testa per lui, e non faceva che piangere e invocare, per salvare la vita di questo miserabile, la clemenza di suo marito”. Il modo in cui era stato fatto il processo, con la lettura pubblica della lettera di Orsini, gli sembrava uno scandalo inaudito. Orsini fu condannato alla ghigliottina, benché Napoleone lo volesse graziare. Sentiva adesso una simpatia fortissima per il rivoluzionario, ma i suoi ministri glielo impedirono con forza. Così il 13 marzo, insieme con Pieri, salì al patibolo. Era assolutamente calmo. Gridò “Viva la Francia! Viva l’Italia!”. Prima di morire, aveva scritto un’altra lettera a Napoleone. Diceva: “ Fra poche ore io non sarò più: però prima di dare l’ultimo respiro vitale, voglio che si sappia, e il dichiaro con quella franchezza e coraggio che sino ad oggi non ebbi mai smentiti, che l’assassinio sotto qualunque veste e’ s’ammanti non entra ne’ miei principi, abbenché per un fatale errore mentale io mi sia lasciato condurre ad organizzare l’attentato del 14 gennaio. No, l’assassinio politico non fu il mio sistema, e il combattei esponendo la mia vita stessa, tanto cogli scritti quanto co’ fatti pubblici, allorché una missione governativa mi poneva in grado di farlo. E i miei compatrioti anziché riporre fidanza nel sistema dell’assassinio, lungi da loro il rigettino, e sappiano per voce stessa di un patriota che muore, che la redenzione loro deve conquistarsi coll’abnegazione di loro stessi, colla costante unità di sforzi e di sacrifizi, e coll’esercizio della virtù verace: doti che già germogliano nella parte giovane e attiva de’ miei connazionali, doti che sole vorranno a fare l’Italia libera, indipendente, e degna di quelle glorie onde i nostri avi la illustrarono. Muoio, ma mentre che il faccio con calma e dignità, voglio che la mia memoria non rimanga macchiata da alcun misfatto. Quanto alle vittime del 14 gennaio, offro il mio sangue in sacrificio, e prego gli italiani che fatti un dì indipendenti diano un degno compenso a tutto coloro che ne soffrirono danno”.

Nella popolare radicalità della canzone di ignoto, che non tiene conto delle pieghe complesse della storia, l’accenno alla figura di Orsini assume i contorni contraddittori di un pericoloso idealista, pronto a commettere atti violenti pur di portare a compimento i propri fini politici. Ciò nonostante l’impresa di Orsini, ricordata a Imola da una lapide e da una via, fu idealizzata in Romagna e nelle Marche come un atto di eroismo estremo e di profondo amore patrio e la sua condanna fu pianta come un “sacrificio” e un “martirio”, dimenticando che la morte procurata ad un proprio simile (soprattutto se innocente) non può mai assurgere ad atto di valore e non tenendo conto delle ultime sue nobili e accorate lettere.

Ma nella canzone il vero protagonista è il Massone Guglielmo Oberdan insieme alla questione delle terre “irredente”, ancora sotto il giogo dell’Austria. Guglielmo Oberdank, triestino irredentista, trascorre la sua breve vita – era nato il 2 febbraio 1858 - lottando per gli ideali repubblicani e libertari. Dopo gli studi medi nella città natale, nel 1877 si trasferì a Vienna dove iniziò gli studi di ingegneria ma, richiamato alle armi l’anno successivo, rimandò al suo colonnello divisa e baionetta, con le parole “Il mio sangue non è per voi”, fuggendo a Roma dove frequentò l’università svolgendo contemporaneamente un’intensa attività irredentista. Dal 1879 al 1882, la santa causa dell’irredentismo doveva attraversare giorno per giorno un nuovo lutto ed una nuova amarezza. Sulla fine del 1879 si spegneva l’anima del partito con la morte del generale Giuseppe Avezzana, membro del Consiglio dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia alla Costituente di Roma del 1872. Ai primi del 1881, falliva un nuovo disegno di sconfinamento in territorio austriaco a cui dovevano partecipare Ricciotti e Menotti Garibaldi e al quale si sussurrava prestasse il proprio consenso lo stesso Giuseppe Garibaldi. Lo stesso Garibaldi, ‘Primo Massone d’Italia’ e dal 1872 Gran Maestro Onorario a vita del Grande Oriente d’Italia, nel marzo da Napoli lanciava con la sua firma e con le sue istruzioni numerosi proclami per un prossimo movimento, dicendo che nell’ultima guerra che sarebbe stata combattuta contro l’austriaco avrebbe preso parte anche lui con qualunque mezzo. Ma il 20 maggio ogni speranza in un consenso della Nazione ad una qualsiasi riscossa contro l’Austria, falliva. In quel giorno l’Italia firmava il primo trattato della Triplice Alleanza. Tredici giorni dopo questo avvenimento, Giuseppe Garibaldi, il creatore di Eroi, l’immortale vincitore di cento battaglie, la grande gloria d’Italia, si spegneva nella sua romita e prediletta isola di Caprera, e la fulminea morte di lui, suscitò anche nelle anime più giovani tutto il fascino e la santa poesia dell’entusiasmo per l’epopea garibaldina. La scomparsa di Giuseppe Garibaldi, non solo doveva segnare la fine di ogni tentativo irredentista a mano armata, ma altresì il principio di una nuova era di persecuzioni per gli Italiani soggetti disgraziatamente all’Austria. A Roma, l’11 giugno furono celebrati solenni funerali, e l’onore di portare la bandiera di Trieste, toccò ad Oberdan, e quando il corteo passò davanti a piazza Colonna, egli alzò il capo. Sui balconi del Palazzo Fiano erano l’ambasciatore austriaco ed il personale dell’Ambasciata. Guglielmo emise un grido, che nel silenzio parve un ruggito, e levando in alto la bandiera, la scosse vigorosamente come per una sfida ed una minaccia. I balconi dell’Ambasciata, in un batter d’occhio rimasero deserti. Guglielmo Oberdan ed i suoi amici vivevano ancora in quella calda atmosfera, dove si pensava che solo un richiamo, un grido, un esempio, potessero bastare a suscitare milioni di petti; là dove si era indubitatamente certi che il sangue versato dovesse necessariamente fruttificare nel presente o nell’avvenire. Non vi era dunque bisogno di un piano positivo e determinato; l’importante era: incominciare ad agire! Oberdan infatti, si era in quelle ultime settimane affaccendato ad accordarsi cogli amici repubblicani e irredentisti d’Italia; aveva corrisposto cogli amici di Trieste per una insurrezione popolare, ma partiva senza nulla avere definito nel suo pensiero, salvo questo: “di agire, anzi di reagire; il come e il quando, sarebbero dipesi dalle circostanze”. Nel settembre del 1882, in occasione di una visita che l’imperatore Francesco Giuseppe si accingeva a compiere a Trieste, per il quinto centenario della così detta “dedizione” della città agli Asburgo, Oberdan partì per la città natale, insieme all’istriano Donato Ragosa, con l’intenzione di compiere un attentato contro di lui. Vuole attirare l’attenzione dell’Europa sulla questione Italiana con un gesto eclatante e al contempo stesso diretto contro uno dei massimi oppositori delle idee libertarie. Prima però scrisse, in caso di catastrofe, un bellissimo testamento politico:

 

Ai fratelli italiani,

Vado a compiere un atto solenne e importante.

Solenne, perché mi dispongo al sacrificio; importante, perché darà i suoi frutti.

È necessario che atti simili scuotano dal vergognoso torpore l’animo dei giovani – liberi e non liberi –.

Già da troppo tempo tacciano i sentimenti generosi, già da troppo tempo si china vilmente la fronte ad ogni specie d’insulto straniero. I figli dimenticano i padri il nome italiano minaccia di diventar sinonimo di vile o d’indifferente.

No, non possono morire così gl’istinti generosi!

Sono assopiti, e si ridesteranno.

Al primo allarme correranno i giovani d’Italia – correranno coi nomi dei nostri Grandi sul labbro – a cacciare per sempre da Trieste e da Trento l’odiato straniero che da tanto tempo ci minaccia e ci opprime. Oh, potesse questo mio atto condurre l’Italia a guerra contro il nemico! Alla guerra, sola salvezza, solo argine che possa arrestare il disfacimento morale, sempre crescente della gioventù nostra.

Alla guerra, giovani, finché siamo ancora in tempo di cancellare la vergogna della presente generazione, combattendo da leoni.

Fuori lo straniero: E vincitori e forti ancora del grande amore della patria vera, ci accingeremo a combattere altre battaglie, a vincere per la vera idea, per quella che ha spinto mai sempre gli animi forti alle cruenti iniziative, per l’idea repubblicana.

Prima indipendenti, poi liberi.

Fratelli d’Italia! Vendicate Trieste e vendicatevi!

Settembre 1882.

 

Tradito da una spia e trovato in possesso di due bombe “all’Orsini”, fu arrestato. Tre interminabili mesi durò la sua prigionia; tre mesi di strazi e di ansie dovette vivere, ora per ora, nel fondo d un carcere. Rinchiuso nella sua segreta, fu morto per il mondo; non vide più nessuno, ed in tutto quel periodo ebbe la saldezza sublime del martire. Condannato a morte sulla forca, alla lettura della sentenza egli sorrise, e fissando sui giudici i suoi occhi azzurri e sereni, con ferma e squillante voce, gridò loro in faccia: Grazie! La madre disperata, impetrò a Vienna, ma invano, la grazia sovrana; e la invocò pure il nostro massimo poeta, il Carducci. Il poeta dell’umanità Victor Hugo, cosi telegrafava all’imperatore: “La pena di morte è abolita per ogni uomo incivilito. La pena di morte sarà cancellata dai codici del ventesimo secolo. Sarebbe bello praticare fin d’ora una legge dell’avvenire.”

Dopo che Francesco Giuseppe aveva rifiutato la grazia, il contegno del martire durante la notte e durante i lugubri preparativi, apparve di una tranquillità stoica. Nel silenzio tragico il condannato con la sua voce giovanile e serena, cantava patriottiche canzoni, mentre la soldatesca croata, sghignazzando lo insultava. Salì sul patibolo, esclamando con voce ferma: “ Muoio contento, perché spero che la mia morte, gioverà a riunire la mia cara Trieste alla madre patria.” Gli fu imposto di tacere, si ordinò ai tamburi di coprirne col rullo la voce. Guglielmo, a capo scoperto e con il petto mezzo ignudo; senza opporre alcuna resistenza, porse egli stesso le mani incrociate per farsele legare con uno spago, e col capestro intorno al collo, volle ancora gridare per l’ultima volta: “Viva Trieste libera! Viva l’Italia! Viva l’It...”. Quel grido, convulsamente lacerato dalla stretta implacabile, doveva poi ripercuotersi nell’anima e sulle labbra di tutto un popolo. Era il 20 dicembre 1882, aveva solo 24 anni.

Scriverà quel giorno Gosuè Carducci, membro della Rispettabile Loggia Felsinea di Bologna: “Morto santamente per l’italia terrore ammonimento / rimprovero ai tiranni di fuori ai vigliacchi di dentro”. E ancora questi versi profetici:

 

No. Guglielmo Oberdan non è un condannato.

Egli è un confessore ed un martire della Religione della Patria.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

A giorni migliori – e verranno, e la bandiera d’Italia sarà piantata su ’l grande arsenale e su i colli di San Giusto –, a giorni migliori, l’apoteosi.

Ora silenzio.


Felice Orsini al patibolo
(Museo del Risorgimento di Roma)



Guglielmo Oberdan